Cultura e Spettacoli

COCKTAIL

Oggi imperano gli happy hour, e sono pochi i barman veri sacerdoti dello spirito Stenio Solinas ricorda i tempi in cui la bevanda «giusta» (che prende il nome dalla figlia di un re messicano) finiva al tavolo di Hemingway o di Hammett...

COCKTAIL

Il mio primo Martini risale alla fine degli anni Sessanta e quindi sono più o meno quarant’anni che ci conosciamo. C’era questo flûte di cristallo dal gambo lungo che poi si allargava come fosse una piramide rovesciata, colmo fino all’orlo di un liquido perlaceo eppure trasparente che alla luce mandava riflessi giallognoli e nel quale ti potevi specchiare. Una volta bevutolo, sentivi lo stomaco allargarsi e nel corpo una sensazione di quieta felicità e quando facevi il bis cominciava a impadronirsi di te una sottile euforia, come se niente al mondo ti potesse o ti dovesse preoccupare.
Nel film Il laureato, che è di quell’epoca, Ann Bancroft, ovvero Mrs Robinson, va al Taft Hôtel, dove di lì a poco inizierà la sua storia di sesso con Dustin Hoffman, ovvero Benjamin, ordina un Martini e le viene in mente una poesia, forse di Dorothy Parker: «I like to have a Martini/ two at the very most/ after three I’m under the table,/ After four I’m under my host». Apocrifi o meno, i versi in questione rimandano a una verità euclidea: un doppio Martini è la perfezione dei sensi, quel che viene dopo, che sia sotto un tavolo o dentro un letto, è semplice ubriachezza...
Da ragazzi si hanno poche idee, ma ciò che le riscalda è l’assoluta certezza con cui le si difende. Sono un po’ come la prima impressione: per quanto se ne dica, è sempre quella giusta. Senza termini di paragone né esperienze, mi sembrò allora che il Martini fosse l’essenza stessa del cocktail, il nec plus ultra, e che non ci fosse bisogno di provar altro... Negli anni poi mi è capitato di bere un po’ di tutto, in materia, dal Manhattan al Daiquiri, dal Margarita al Sidecar, dal Mojito al Negroni, dal Campari shakerato al Bellini, all’Old fashion, al Negroni sbagliato, e per quanto ciascuno di essi abbia una dignità e una ragion d’essere, nessuno può stargli alla pari, «l’unica invenzione americana perfetta come un sonetto» secondo la definizione di H.L. Mencken, l’unico cocktail che possa vantare per sé una colonna sonora firmata Cole Porter: «They have found the fountain of youth/ is a mixture of gin and vermouth».
Adesso che l’editore Excelsior 1881 pubblica per la prima volta in Italia il The Savoy Cocktail Book (pagg. 287, euro 28,50), ovvero la bibbia in materia, scritta negli anni Trenta da Harry Craddock, barman dell’omonimo hôtel, la personale sensazione che ne accompagna la lettura è quella di chi si scopre un sopravvissuto alle prese con un mondo comunque scomparso. Non bisogna farsi ingannare da considerazioni superficiali. Per esempio, che una buona metà dei cocktail prima ricordati, nel compendio di Craddock non siano menzionati, prova evidente, si potrebbe dire, di un continuo e proficuo rinnovarsi, dallo stesso Craddock comunque previsto, visto che in appendice al libro erano già state inserite, al tempo in cui uscì, alcune pagine bianche dove trascrivere «i nuovi cocktail inventati nel frattempo». Allo stesso modo, il proliferare dei cosiddetti happy hour e per certi versi degli stessi wine-bars sembrerebbe indicare il revival e/o l’epifania di un certo tipo di bere, per giunta oggi di gran moda e appannaggio di un pubblico giovanile se non giovane, urbano e di ambo i sessi. La realtà, purtroppo, è un’altra, come cercheremo di dimostrare strada facendo.
Cominciamo dal principio. La prima descrizione di cosa fosse un cocktail risale al 1806, apparve sul periodico americano The Balance e suonava così: «Una bevanda stimolante composta da diversi alcolici, zucchero, acqua e bitter». L’origine della parola è oscura, ma The Savoy Cocktail Book la fa risalire all’inizio di quel secolo, quando l’esercito americano degli Stati Uniti del Sud entrò in contrasto con il re messicano Axolotl VIII. Nei negoziati che ne seguirono, il re chiese al generale americano se volesse bere qualcosa, e questi acconsentì. Apparve allora una ragazza bellissima con in mano una coppa di oro e rubini colma di un liquido da lei stessa preparato. Ci fu un attimo di silenzio e di preoccupazione. Chi avrebbe bevuto per primo e/o da solo? La giovane risolse il problema chinando reverentemente il capo e bevendo d’un fiato dalla coppa. Il generale chiese chi fosse quella fanciulla: «È mia figlia Coctel» replicò il re. «Bene, farò in modo che il suo nome sia per sempre onorato dal mio esercito»: Coctel divenne Cocktail e questo è quanto basta.
È comunque con la seconda metà dell’Ottocento che il termine assunse veramente il suo significato moderno, in contemporanea con il sorgere dei primi grandi alberghi internazionali e con l’apparire della prima vera clientela cosmopolita. Ed è allora, del resto, che il Martini nasce negli Stati Uniti e ne diventa per molti versi l’incarnazione.
Da ragazzo ignorante, per quanto bevitore discreto, mi sono a lungo crogiolato nell’illusione che si trattasse di una creazione italiana e che il suo nome derivasse dall’omonimo vermouth piemontese. Era una forma di patriottismo un po’ ingenua e un po’ sentimentale, comprensibile in un’epoca in cui in Italia il termine patria era come scomparso dai dizionari, sostituito dal più anodino Paese. Nel 1981, la lettura di Martini Straigtht Up di Lowell Edmunds (Johns Hopkins University Press) fece strame di quella giovanile speranza: non c’è alcuna pezza d’appoggio storica in materia, anche se fra Martini, Martinez, Martine l’origine della parola resta sconosciuta e Edmunds se la cava dicendo che «il destino del Martini è più facile da cogliere che non la sua infanzia. Per lui vale ciò che, nella Poetica, Aristotele scrisse sulla nascita della tragedia: “Essendo passata attraverso molti cambiamenti, trovò infine la sua forma naturale e lì si fermò”». Resta il fatto che siamo di fronte, secondo la celebre formula di Bernard De Voto, al «supremo dono americano alla cultura mondiale».
Grandi alberghi e clientela cosmopolita, si diceva prima. Aggiungeteci un bancone da bar di quelli in legno scuro, luci basse, fumo di sigarette, cuoio delle poltrone, scrittori d’oltreoceano e avrete subito chiaro di cosa stiamo parlando. L’età d’oro dei cocktail è stata quella, la prima metà abbondante del XX secolo, il secolo americano per eccellenza, ma degli americani innamorati dell’Europa. In nemmeno due capitoli di Di là dal fiume, tra gli alberi, c’è spazio per una dozzina di Martini: «Prendiamone un altro» disse la ragazza. «Lo sai che non ne ho mai bevuti prima di conoscerti». «Lo so. Ma li bevi talmente bene». Nell’Uomo ombra di Dashiell Hammett, Nora Charles agita lo shaker nella sua stanza d’albergo e il marito Nick, che è in giardino, fa al figlioletto: «Qualcosa mi dice che qualcosa d’importante sta accadendo da qualche parte e penso che dovremmo essere lì». Dalla finestra la cameriera di Nora si stupisce di vederlo marciare verso la hall. Ha sentito il rumore dello shaker o l’odore dell’alcol? «Cara, questo è un cocktail» risponde lei. Ed è sempre Nick Charles a spiegare al barman del Normandie che se il Manhattan va shakerato come al ritmo di un foxtrot e il Bronx come fosse un Two-Step, per il Martini ci vogliono le cadenze di un valzer. Vent’anni dopo siamo all’«agitato, non mescolato» usato da Ian Fleming per i gusti alcolici del suo James Bond.
Qualche anno fa Sandro Viola, che è un maestro in materia, elevò dalle pagine di Repubblica il suo grido di dolore all’insegna di «un drink che si chiama desiderio». Perché, e qui torniamo a quella sensazione da sopravvissuto e a quell’idea di mondo scomparso da cui siamo partiti, ciò che faceva di un cocktail un cocktail e non una bevanda da happy hour erano quei legni scuri da bar, del tipo classic, la penombra, il buio discreto, il tintinnio dei bicchieri e quello più sordo dei cubetti di ghiaccio versati nel mixer, i barman formali, i clienti in giacca e cravatta e, nel caso di un pianoforte e di un pianista, non un solo motivo che avesse meno di quarant’anni, fra Gershwin, Berlin, Porter, insomma. Erano l’effigie di un’epoca, come suggerì Lillian Hellman, in cui bere appariva «romantic, even chic», ovvero il «drinking is fun» di Hemingway, il «civilisation begins with distillation» di Faulkner, la «medicinal illusion of gin» di Fitzgerald, lo «smoking, drinking, never sleeping» di Duke Ellington... L’epoca riassunta in quei due versi di Auden. «Potrebbe una tigre/ bere Martini, fumare sigarette/ e durare quanto duriamo noi?».
Già alla fine degli anni Settanta, la decadenza divenne inarrestabile. Secondo un sondaggio del mensile Forbes, il vino bianco batteva i cocktail nella misura di 11 a 1 e oggi che nei bar è vietato persino fumare e va di moda il vino rosso, ormai ti trovi a fianco di trentenni che hanno la vita dei pantaloni all’altezza delle caviglie, di quarantenni in overdose di pochette, di barman che sino a ieri facevano i baristi e parlano di calcio con i clienti, di musica techno, di appetizers con cui fai pranzo e cena...

Si è chiusa irrimediabilmente un’epoca e quel che resta, sparso qui e là in Europa è qualche sacerdote dello spirito: Roberto Pellegrini al Gritti di Venezia, Colin Field al Ritz di Parigi, Tony Micelotta al Dukes di Londra, Simeone Leoni al Peck di Milano... Prima o poi i barbari travolgeranno anche loro e con il The Savoy Cocktail Book faranno un falò intorno al quale canteranno scolandosi una birra.

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