Cultura e Spettacoli

Coetzee seppellisce se stesso e la (falsa) letteratura

John Maxwell Coetzee è morto. Il Premio Nobel per la Letteratura è deceduto nel 2009 ma soltanto adesso ne abbiamo avuto notizia. Il suo testamento postumo non poteva che essere un romanzo, Tempo d’estate, da poco uscito in Italia per Einaudi nella traduzione di Maria Baiocchi (pagg. 252, euro 20). Romanzo che conclude la trilogia autobiografica cominciata con Infanzia e Gioventù. Come nei precedenti, anche per annunciarci la propria scomparsa, Coetzee racconta la propria vita in terza persona. Questa volta con una novità: decide di inscenare la propria morte sulla carta facendola ripercorrere da un giovane accademico inglese. Un’invenzione narrativa che risulterebbe un’irritante provocazione autocelebrativa: ma a Coetzee, autore di capolavori come Vergogna e L’età di ferro, si perdona tutto. Compreso il sottotitolo comune ai suoi tre romanzi autobiografici: «Scene di vita di provincia». Un chiaro riferimento al romanzo realistico europeo (da Balzac a Flaubert sino a George Eliot) che suonerebbe presuntuoso ma, ancora una volta, al Nobel sudafricano si perdona tutto. E non perché chi scrive abbia una passione viscerale per Coetzee ma perché è oggettivo, è chiaro a chiunque affronti l’autore anche solo per la prima volta e magari iniziando anche dalla sua «morte» letteraria.
Coetzee fa impallidire qualsiasi scrittore contemporaneo: per non parlare degli scrittori italiani che manifestano la propria «nuova epica» ma i cui romanzi, al confronto con Coetzee, appaiono per quello che sono: delle bare senza maniglie. Quella di Coetzee è letteratura progresso: lo leggi e ti cambia la vita. Perché ci fa veramente rendere conto del fatto che «siamo ormai tutti fabbricatori di storie. Tutti continuamente inventiamo la storia della nostra vita». Senza bisogno di trincerarsi nel postmoderno Coetzee stravolge ogni etichetta, ogni genere, ogni paragone: la sua presunzione è un atto d’amore costituito per il ritrovamento della nostra coscienza perduta. In tempi in cui ormai è possibile riciclare la nostra anima, basta scrivere un romanzetto, o rottamarla con l’incentivo (gli anticipi anche in Italia li danno a chiunque), Coetzee ci ricorda la propria sfiducia verso il linguaggio e la capacità degli uomini di comunicare - e di conoscere se stessi - attraverso le parole.
Fare letteratura oggi non significa pubblicare: pubblicare, come controfirmerebbe Coetzee e come amava ripetere John Keats, è «scrivere sull’acqua». Ogni autorucolo, che sia un bestsellerista o l’ultimo degli sconosciuti, cosa ci lascia? Nulla: per lo più viviamo in una epoca di scrittori che sono Narcisi del Nulla. Coetzee ripercorre la propria vita con un’autoironia che non ha eguali. Ha una forza, non solo stilistica, che nessun contemporaneo possiede. Non c’è pagina, anche in questo Tempo d’estate, che non valga la pena di leggere. La nostra società, come sottolinea Coetzee, è «un approdo secondario in una rotta che non porta da nessuna parte: un luogo di selvaggia indolenza». Lapidario. Perché «non c’è niente per cui valga la pena combattere perché combattere non fa che prolungare il ciclo di aggressione e ritorsione».
Facendosi raccontare da un terzo, attraverso la messa in scena della propria morte, Coetzee racconta la nostra morte morale. Evidenzia i limiti dell’essere (umano) e sottolinea come ormai tutto sia «privo di fuoco». L’unico fuoco che rimane arde nell’acciaio, nelle armi del quotidiano, nei (ri)sentimenti autistici dell’esistenza, nella falsa appartenenza a una società dello spettacolo che vive soltanto del proprio fatuo riverbero. Non solo si scrive sull’acqua, ma nell’acqua ci rimira trovando fantasmi senza neppur più la dignità di avere scheletri negli armadi. Gli scheletri siamo noi. Disossati dal sonnambulismo a occhi aperti. Siamo noi.

Come scrive Coetzee «siamo bambini nel bosco: una tribù servita dagli schiavi».

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