La corsa alle risorse sotto i ghiacci polari scatena una nuova «guerra fredda»

Le acque dell'estremo Nord non appartengono a nessuno, ma molti Paesi, dagli Usa alla Russia, dalla Norvegia alla Danimarca si contendono il diritto di sfruttarne la ricchezza

Marzio G. Mian

La mossa della Nato alle Svalbard, sia pure soltanto politica, ha alzato la temperatura dell'Artico dove s'affacciano otto Paesi che militarizzano la loro presenza con una velocità pari a quella dello scioglimento dei ghiacci e alla corsa per la conquista delle risorse ora sempre più accessibili grazie alle conseguenze del cambiamento climatico. La decisione dell'assemblea parlamentare (cento rappresentanti politici di 18 Paesi dell'Alleanza) di riunirsi qui in capo al mondo il 9 e il 10 maggio, nell'arcipelago simbolo della pacifica coabitazione internazionale, una zona franca della ricerca polare anche ai tempi della Guerra Fredda, è stato un netto messaggio alla Russia di Vladimir Putin e alla sua dottrina d'occupazione dell'Artico. Tanto che Mosca ha colto l'occasione per aprire un contenzioso sulla legittimità della sovranità norvegese sulle isole Svalbard, le terre abitate più a Nord del Pianeta. «Non c'è bisogno della Nato nell'Artico», ha detto il ministero degli Esteri russo, «dopo l'escalation di manovre militari ai nostri confini, ora assistiamo a questa provocazione. Si vuole portare le Svalbard sotto l'ala politica e militare della Nato, in violazione dei trattati che stabiliscono la totale demilitarizzazione dell'arcipelago».

Nel 1920 a Parigi oltre venti Paesi, compresa l'Italia - che a Ny-Ålesund vanta una prestigiosa base scientifica del CNR - firmarono un accordo (sottoscritto dall'Urss nel 1935) che definiva le Svalbard territorio norvegese ma vietava ogni presenza militare. La posizione geostrategica delle isole con il tempo ha incrinato lo spirito di Parigi: la Norvegia nel 1977 ha stabilito unilateralmente una zona economica di 200 miglia intorno all'arcipelago, comprese le acque al largo dei secolari insediamenti russi di Barentsburg e Pyramiden. Mosca non ha mai riconosciuto questa decisione, ma ora il livello dello scontro con Oslo assume dimensioni più allarmanti perché s'inserisce nel confronto con la Nato, che dopo la crisi ucraina ha spostato i presidi sempre più a ridosso dei confini russi. Dai Baltici, dove le manovre e la mobilitazione di battaglioni e tank avvengono a scadenze quasi bimestrali, fino all'High North scandinavo, e soprattutto in Norvegia, dove i marines americani s'addestrano alla «guerra artica» a Porsangmoen, non lontano dal confine russo. A Tallinn, in Estonia, la Nato ha la sua base operativa contro la guerra cibernetica, mentre a Helsinki avvierà in autunno un mega centro tecnologico e d'intelligence per contrastare la cosiddetta «guerra ibrida» (condotta da forze regolari o irregolari, anche attraverso le fake news).

Ma è la Norvegia la forza Nato regionale più concentrata sul fronte artico. A Bodø è appena stata annunciata una «nuova strategia nazionale per l'High North», che definisce l'Oceano Artico priorità nazionale per la difesa e lo sviluppo economico. Proprio alla vigilia del Summit «politico» alle Svalbard, la Nato ha lanciato l'operazione Eastland 17, manovre di guerra navale in una zona dell'Artico orientale ancora non rivelata: al largo di Tromsø sono stati avvistati sottomarini tedeschi e norvegesi, la nave spia tedesca «Oste», varie navi da combattimento americane, olandesi e francesi. La stampa norvegese ritiene che il dispiegamento sia la risposta Nato all'intensa attività della flotta sottomarina nucleare russa nella penisola di Kola. Non è sfuggita ai comandi Nato l'impresa di un sottomarino strategico russo che ha navigato nascosto sotto la calotta polare per due mesi prima di fare ritorno alla base di Gadzhiyevo. «Stanno investendo in nuove professionalità e tecnologie, non riusciamo più a tenere il loro passo», ha detto un ammiraglio americano. Eppure Mosca si mostra allarmata della decisa svolta strategica norvegese. Il generale russo Vladimir Dvorkin ha accusato Oslo d'innescare una pericolosa militarizzazione e ha reagito con ironia all'installazione a Vardo, nella Norvegia centrale, di un radar Globus II: «Abbiamo molti dubbi che serva, come dicono, a monitorare la spazzatura spaziale. Riteniamo che lo scopo sia molto più terreno».

Dopo i fatti di Crimea, nonostante qualche tiepida apertura diplomatica recente, tra Norvegia e Russia i rapporti sono degenerati. La posta in gioco è presidiare una regione che custodisce il 40 per cento delle risorse fossili del pianeta e un mare che sta diventando, con il riscaldamento climatico, sempre più navigabile: una cruciale rotta marittima per il commercio globale. La scomparsa del ghiaccio per Putin appare come una conquista: oltre metà delle coste artiche sono russe e, dai tempi dello zar, la Russia si è data un baricentro strategico artico. Le nuove rotte e l'accesso a inesplorati giacimenti di petrolio e gas, soprattutto le tensioni con l'Occidente, legittimano nei disegni di Putin un dispiegamento di forze mai visto. Come l'incremento della presenza di sottomarini nucleari della classe Akula, dotati di sistemi missilistici Kalibr e Oniks in grado di colpire target in mare e a terra (usati nella guerra in Siria) o come la «base estrema» appena inaugurata di Nagurskoye nella Terra di Francesco Giuseppe, isole russe a Nord Est delle Svalbard. Un complesso di 14mila metri quadrati, che ospita 150 soldati, una chiesa ortodossa e un aeroporto in grado di operare a 50 sotto zero. A sorpresa il ministero della Difesa, sfatando la leggendaria paranoia russa in fatto di segretezza, ha divulgato alcune immagini della base.

Un guanto di sfida che, secondo il Barents Observer, quotidiano di Kirkenes, ha portato la Nato a decidere per la controversa assemblea alle Svalbard. «I russi vogliono aprire una crisi sulle Svalbard», dice Per Arne Totland, scrittore norvegese ed esperto di geopolitica artica: «Si tratta di un seminario sulle sfide e le opportunità del cambiamento climatico, nessuna violazione del trattato». Ha avuto ampio risalto sui media di Oslo un articolo di Alexander Khrolenko, commentatore della Ria Novosti molto vicino al Cremlino, secondo cui «la giurisdizione delle Svalbard non è chiarita dal trattato del 1920». Khrolenko cita il primo documento cartografico del 1569, dove il fiammingo Gerardus Mercator chiama l'arcipelago «Le sante isole russe» perché abitate dai coloni russi Pomor e si appella anche a un accordo internazionale del 1872 che impediva l'assegnazione territoriale a qualsiasi Stato.

In Norvegia allarmano anche le missioni scientifiche russe. Da Murmansk a breve partirà il Dalnye Zelantsky, un vascello dell'Istituto Biologico Marino: obiettivo annunciato lo studio dei fondali delle Svalbard orientali, ma secondo Totland dietro queste ricerche si potrebbero nascondere mappature di risorse petrolifere. «Il nostro governo ha molte informazioni, ma per ora tace perché si potrebbe creare una situazione pericolosa. Così come tace sui piani russi di costruire un porto alle Svalbard nel loro settore di Barentsburg, ufficialmente per garantire la sicurezza dei pescherecci russi, cosa cui provvedono benissimo le strutture norvegesi.

Ci sono informazioni inquietanti», aggiunge, «anche sull'ampliamento della base scientifica russa a Barentsburg. Il trattato del 1920 non prevede nessun controllo o regolamentazione sulle attività di ricerca, ma è sempre più chiaro che per i russi, e non solo, queste basi stanno diventando una copertura per ben altre attività».

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