«Così ho viaggiato nel buio mentre mia moglie moriva»

Lo scrittore pubblica un romanzo di fantascienza dove canta la perdita di ciò che abbiamo più caro. «Questo è l'ultimo»

Un pastore cristiano lascia la sua chiesa vicino a Londra per andare su un pianeta lontano e misterioso. Peter deve insegnare agli abitanti di Oasi il Vangelo, deve annunciare la parola di Dio. Ma per farlo, per realizzare la sua missione, deve lasciare la moglie Beatrice sulla Terra. Possono solo scriversi: lunghe lettere d'amore in cui Bea, settimana dopo settimana, descrive al marito lontano catastrofi continue, inondazioni, terremoti, eruzioni, saccheggi. La Terra sembra sul punto di collassare. Bea e Peter sono i protagonisti de Il libro d elle cose nuove e strane , il nuovo romanzo di Michel Faber, uscito in Gran Bretagna dodici anni dopo il bestseller Il petalo cremisi e il bianco e ora pubblicato in Italia da Bompiani (pagg. 592, euro 21). Faber, olandese di nascita e australiano-scozzese d'adozione, vestito in total black con stivali Ugg ai piedi, è a Milano per la Milanesiana (oggi, a mezzogiorno, sarà protagonista dell'incontro «L'amore, l'ossessione», questa sera sarà a Torino).

Ha impiegato dodici anni per scrivere questo libro. Perché così tanto?

«Ero disilluso sul ruolo della letteratura nel mondo: ero arrabbiato e stufo dell'impotenza degli scrittori nel cambiare le cose. Poi, dopo un po' di anni passati a mugugnare, ho capito che tutto quello che uno scrittore può dare a un lettore mediamente intelligente è una consolazione. E qualcosa che gli piaccia leggere».

Così ha iniziato Il libro delle cose nuove e strane ?

«Già allora sapevo che questo sarebbe stato il mio ultimo romanzo. Così, al contrario dei libri precedenti, ho deciso di compiere un viaggio nel buio: non sapevo neanche io quello che sarebbe successo. Poi, dopo qualche capitolo, a mia moglie Eva è stato diagnosticato un cancro incurabile. E questo ha cambiato tutto. Mi occupavo di lei ventiquattr'ore al giorno».

Ha smesso di scrivere?

«Ho rallentato, finché non riuscivo più. Negli ultimi due anni mi ero rassegnato all'idea che il libro rimanesse incompiuto. Ma per Eva fu uno choc. Mi disse: “Devi finirlo prima che io muoia”. Mi fece promettere di scrivere sei righe al giorno: “Non sono troppe, puoi farcela” mi disse. E a un certo punto mi sono sbloccato: sono riuscito a finirlo».

Che cosa le ha detto sua moglie? Le è piaciuto?

«Ha fatto in tempo a leggerlo, a darmi i suoi consigli, io l'ho corretto e ne stavamo ancora discutendo quando eravamo in ospedale, prima che morisse. Eva è stata sempre coinvolta nel mio lavoro, mi aiutava a scrivere meglio».

Come la aiutava?

«Per esempio, lei non amava i romanzi storici o vittoriani. Li trovava noiosi. Così, quando ho scritto il Petalo , dovevo fare in modo che piacesse anche a una come lei. E poi non amava la fantascienza. Mi chiedeva: “Ma perché Peter deve andare su un altro pianeta? Non può andare in Corea del Nord?” E io: “Non è lontano abbastanza perché non possa più tornare indietro».

In effetti è un libro di fantascienza, anche se non solo.

«Eva era preoccupata che le persone che non la amano non lo leggessero. Quando ci siamo incontrati, 27 anni fa, io scrivevo solo per me o per una élite immaginaria di lettori: è stata lei a spingermi a comunicare con più persone possibile».

Il dolore, la perdita, il gatto di casa, un uomo salvato da una donna, il passato da infermiere: è un libro in parte autobiografico?

«Forse un po'. Ma Peter non ama la musica, che invece per me è fondamentale. Lui è cristiano, e io sono ateo. Anche se capisco perché le persone abbiano bisogno della religione».

Perché ha voluto scrivere un romanzo così triste?

«Perché viviamo su un pianeta molto triste e, se guardiamo la storia di tutti noi, avrà sempre una brutta fine: tutti ci ammaleremo e moriremo, perderemo tutto, il corpo, l'amore, la memoria, i figli, il mondo. Non è una favola, il finale è sempre triste. Però volevo dare allo stesso tempo un po' di consolazione, di serenità e di humour, che aiuta sempre».

Per esempio col riferimento ai fumetti della Marvel e a Jack Kirby?

«Certo. Io sono un grande collezionista di fumetti, ho anche quelli italiani supermisogini degli anni Settanta. Comunque il senso è quello di una sfida: possiamo goderci la vita anche se è breve. E dovremmo essere grati per ciò che abbiamo».

Perché ha detto che è il suo ultimo romanzo?

«Non ho mai voluto scrivere libri per vivere. Avevo l'idea di qualche libro essenziale da mettere nel mondo e poi basta, senza sprecare altri alberi. C'è abbastanza da leggere, ci sono altri autori. Il 99 per cento della letteratura viene dimenticato, come tutto il resto d'altronde. E poi Eva leggeva ogni capitolo dei miei libri, scrivere era parte della nostra vita. Lei non c'è più, quindi credo sia molto, molto difficile che possa scrivere un altro romanzo».

E che cosa fa oggi?

«Cerco di convivere con la perdita di Eva. Il prossimo progetto è un libro di poesie. Anche Eva scriveva molto, vorrei finire le sue storie, in modo da scrivere insieme, dopo la sua morte: spero che fra qualche anno uscirà un libro di Eva e Michel Faber».

La storia del libro è straziante, ma non c'è sentimentalismo. Come ha fatto?

«Il sentimentalismo è un modo di ingannare il lettore. Se devi affrontare la realtà della nostra esistenza devi farlo attraverso cose reali. Il sentimentalismo è una maschera».

Bea e Peter comunicano solo per lettera, ma sembrano non capirsi. La scrittura fallisce?

«Credo nessuno si capisca davvero: non nel libro, dove Peter è addirittura in un altro mondo, fra persone che parlano un'altra lingua. Ma tutti ci capiamo così poco.

Se pensassimo a quanto è perso non solo nella traduzione, ma in qualunque comunicazione, fra moglie e marito, fra madre e figlio, se fossimo consapevoli davvero di questa distanza... Siamo su pianeti diversi. Fa paura, ed è una delle cose di cui parla il libro».

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