Letteratura

Così Renan ha "scoperto" la nazione

La premier ha citato la sua idea di comunità politica: moderna e non imperialista

Così Renan ha "scoperto" la nazione

È incredibile che una citazione di Ernst Renan fatta da Giorgia Meloni per ricordare l'anniversario del proclamazione del Regno d'Italia e, quindi, l'unità nazionale abbia potuto scatenare le ire di un politico, Nicola Fratoianni, che il pensatore francese probabilmente non ha mai letto, come dimostra il solo fatto di averlo definito «teorico della razza ariana e del razzismo». Ed è, pure, incredibile che uno scrittore, Corrado Augias, che invece lo conosce, abbia potuto inalberarsi intimando alla presidente del Consiglio di mettere giù le mani dal grande intellettuale dell'Ottocento francese.

Eppure, per quanto incredibile, tutto ciò è accaduto a dimostrazione, o conferma, del fatto in Italia, nell'Italia di oggi, la polemica politica e politico-culturale non riesce a essere separata dal pregiudizio ideologico. È accaduto perché i Soloni della Sinistra non possono ammettere, e neppure concepire, che essendo di destra la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, possa avere, come ha dimostrato di avere, una buona preparazione culturale. Così, per principio preso, tutto quello che dice deve essere contestato anche a costo del ridicolo. Come è avvenuto a proposito di Renan.

Ma ricordiamo chi è Renan (1823-1892) in nome del quale si è scatenato un piccolo putiferio. Per quanto non piacesse ai pettegoli e maldicenti fratelli Goncourt, Edmond e Jules, i quali nel loro pur delizioso Journal gli dedicano tanti maligni passaggi definendolo per esempio «retore del menefottismo» o «cavillatore filosofico», Renan fu uno dei maggiori geni del suo tempo, filosofo e storico delle religioni, saggista e critico letterario. Secondo un altro spirito polemico e dissacratore come Charles-Augustin Sainte-Beuve (che gli dedicò una delle sue Conversazioni del lunedi) egli «sapeva farsi amare con serietà», anche se i suoi scritti attiravano polemiche. La celebre Vita di Gesù (1863), per esempio, esaltando la figura umana del Cristo e mettendone in luce la grandezza morale ma negando la veridicità dei miracoli, gli procurò non pochi guai.

Nato da una famiglia bretone di piccola borghesia, fu avviato alla carriera ecclesiatica, ma presto abbandonò il seminario per gli studi filologici e storico-filosofici, si entusiasmò per la filosofia tedesca e per gli scritti storici di Jules Michelet, oltre che per la storia delle religioni. Da un punto di vista politico non manifestò, all'inizio dell'attività pubblicistica e scientifica, particolari interessi, anche se la sua vita si svolse in un periodo particolarmente turbolento quale fu quello post-napoleonico, della monarchia borghese e poi dell'impero di Napoleone III.

Nel 1871, un anno dopo la sconfitta di Sédan nella guerra franco-prussiana un evento che segnò il tracollo del sogno imperiale del secondo Napoleone e rappresentò per la Francia e i francesi un trauma destinato a durare a lungo Renan pubblicò un saggio percorso da un profondo scetticismo esistenziale, La réforme intellectuelle et morale, nel quale criticò la già decadente istituzione repubblicana e democratica auspicando una sorta di utopia aristocratica.

È stato scritto che questo testo, apprezzato dagli ambienti della destra conservatrice, fu il frutto, proprio, del trauma degli avvenimenti del 1870. Ed è indubbio che quei fatti, in particolare la Comune, scioccarono Renan. Tuttavia come ha dimostrato lo storico israeliano Zeev Sternhell già prima del conflitto franco-prussiano, egli aveva espresso in un articolo, La monarchie constitutionelle en France, apparso sulla Revue des deux mondes posizioni critiche nei confronti della democrazia e dei principi rivoluzionari e aveva invitato Napoleone III ad adottare un «vero programma conservatore».

Comunque sia, che la guerra franco-prussiana abbia segnato una svolta nella storia europea e rappresenti idealmente lo spartiacque del passaggio dalla cosiddetta «politica delle nazionalità» all'epoca dei nazionalismi, prima, e, poi, degli imperialismi concorrenti, è un dato di fatto. In quel periodo si sviluppò, pure, un vivace dibattito sul concetto di nazione che vide impegnati, su sponde opposte, storici tedeschi, come Theodor Mommsen, che rivendicava il diritto della Germania ad annettere l'Alsazia perché abitata da popolazione di razza e lingua tedesca, e storici francesi come Numa-Denis Fustel de Coulanges che, invece, contestava questa tesi sostenendo che l'essenza di una nazione non è definita né dalla razza né dalla lingua ma da comunanza di interessi, ideali, affetti e ricordi.

Qualche tempo dopo, Renan pronunciò alla Sorbona, era il 1882, una conferenza (il cui testo è disponibile in più edizioni italiane anche recenti) sul concetto di nazione all'interno della quale è contenuto il passaggio citato da Giorgia Meloni: un passaggio che, definendo, appunto, la nazione «un plebiscito di ogni giorno», non lascia spiragli né a derive di tipo nazionalistico-imperialista basate su un'idea «totalitaria» dello Stato né, tanto meno, a concezioni deterministiche e razzistiche. Quel passaggio costituisce, in realtà, la più suggestiva e pregnante definizione del concetto di nazione mai elaborata. Una definizione che va ben oltre gli schieramenti di destra e di sinistra e che dovrebbe essere patrimonio comune e, come tale, riconosciuto. Bene ha fatto Giorgia Meloni a ricordarla.

E bene ha fatto non solo a sottolineare errori e falsità di chi non conosce le cose di cui parla, ma a rivendicare, con forza, il diritto di citare ancora quella definizione in nome di una cultura libera e, possiamo aggiungere, liberale.

Commenti