Dopo lesordio del 2002 con il romanzo Ogni cosa è illuminata e il successivo Molto forte, Jonathan Safran Foer, salutato come «il nuovo genio della letteratura americana», torna a (s)fregare la lampada con Se niente importa (Guanda, pagg. 360, euro 18). Sottotitolo: «Perché mangiamo gli animali?».
Foer è la sintesi chic di quella noia narrativa che in molti continuano a scambiare per Letteratura. E così, insieme a Jonathan Franzen, Dave Eggers e David Foster Wallace (con tutto il rispetto per la sua tragica vicenda umana), anche Foer è diventato un classico istantaneo: un autore che ha lambizione di lasciare una traccia ma non riesce ad andare al di là di qualche piccolo livido. Foer, dopo aver contribuito con i suoi romanzi ad alimentare un nuovo realismo magico da «MCondo» (una zuppetta predigerita che ha lo stesso valore di un milk shake: il gusto cè, la sostanza meno), si chiede: «Perché mangiamo gli animali?».
Dopo averci spiegato che «i colombi seguono le autostrade e prendono determinate uscite, probabilmente utilizzando molti degli stessi segnali di cui si servono gli essere umani» e che «anche i pesci dialogono tra loro» (ma non si diceva muti come un pesce?), arriva al dunque: «gli allevamenti intensivi sono disumani». Il problema è comprensibilissimo: ma i centri commerciali non sono allevamenti intensivi altrettanto letali? Ci dispiace per i maiali, ma la profezia di Omero non è più attuale? Uno dei personaggi minori dellOdissea, trasformato in un maiale dalla maga Circe, supplica Ulisse di non farlo tornare umano perché si trova più a suo agio a scrofolare che ad affrontare la vita. Altro che Foer e la sua «morale» che possiamo sintetizzare con la sua frase: «Dare agli animali da allevamento una vita buona come quella che diamo ai nostri cani e ai nostri gatti, e una morte facile come quella che diamo ai nostri compagni animali sofferenti e allultimo stadio di una malattia».
Va tutto bene, ma il cortocircuito è in agguato: le teorie di Foer, un rimasticamento intensivo di tesi già note, sono commoventi. Però seguendo lo scrittore americano non si finirebbe più. E che dire dello sfruttamento degli animali in televisione? Perché non scendere in piazza per protestare contro il Commissario che in ogni puntata infarcisce Rex di panini al salame? Dobbiamo provare rimorso per aver trascorso tutta linfanzia senza dire nulla contro la prigionia di Abramo, il pesciolino di «Arnold», tenuto in cattività per mille puntate in una boccia di vetro?
Certo, impressiona leggere che «i lavoratori di uno dei più grandi produttori di carne di maiale degli Stati Uniti, sono stati filmati mentre maltrattavano i maiali, li picchiavano e li prendevano a calci, li sbattevano contro il pavimento di cemento e li percuotevano con barre metalliche e martelli». Ma non è quello che succede tutte le domeniche fuori dagli stadi?
A stupire, invece, è il giudizio del Nobel J.M. Coetzee quando scrive: «Gli orrori quotidiani dellallevamento intensivo sono raccontati in modo così vivido che chiunque, dopo aver letto questo libro, continuasse a consumare i prodotti industriali, dovrebbe essere senza cuore o senza raziocinio». Stupisce perché Coetzee nel 1999 ha dedicato un pamphlet di straordinaria intensità proprio a La vita degli animali (Adelphi): in quelle pagine restituisce alla vita una dimensione morale che è lunica possibile. La dimensione morale della pietà verso tutti, animali compresi: le grandi e sconosciute vittime che assorbono i lati peggiori degli esseri umani senza per questo diventare le copie dei loro aguzzini. Ed è questo il vero punto.
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