"Crimini, strada e sogni nella Brooklyn perduta"

Lo scrittore Jonathan Lethem racconta la vita di un gruppo di ragazzi negli anni '70, fra idealismo e realtà

"Crimini, strada e sogni nella Brooklyn perduta"

«Negli ultimi anni ho vissuto più in California che sulla costa orientale, perché è qui che insegno e i miei figli vanno a scuola, ma torno spesso a New York per fare ricerche, incontrare persone, setacciare archivi e percepire la sua atmosfera». Jonathan Lethem rimane un figlio di Brooklyn, dove è nato nel 1964; e, dopo Brooklyn senza madre (1999) e La fortezza della solitudine (2003) torna fra le strade del quartiere in cui è cresciuto con Brooklyn Crime Novel (La nave di Teseo, pagg. 532, euro 24). Una città nella città, fatta rivivere nelle avventure di un gruppo di ragazzini negli anni Settanta.

Jonathan Lethem, qual è l'atmosfera di Brooklyn?

«Per me è qualcosa di veramente soggettivo e personale. La distanza percorsa nel tempo e gli strati sedimentati della storia sono nel mio stesso corpo, negli edifici, nelle strade; così, quando cammino nel mio quartiere, non vedo il presente, bensì il passato».

È vero che viveva in una comune?

«Sì, la mia casa era come una comune, pur se non ufficialmente. Era tipico di Brooklyn in quegli anni: un esperimento, da parte di artisti e attivisti, per reinventare le strutture sociali. I miei genitori appartenevano a quel movimento».

Com'era la sua Brooklyn?

«Tutta la città era un luogo di cambiamento radicale, ma era anche di grande povertà, dove molte aree erano in rovina e necessitavano di essere recuperate. Per alcuni, però, non valeva nemmeno la pena tentare di recuperare la zona dove sono cresciuto e sarebbe stato meglio buttare giù tutto. Oggi quelle stesse strade sono dei totem: ci vivono le stelle del cinema...»

Grazie alla gentrificazione e all'opera dei brownstoner?

«Una delle forze che ha trasformato la zona è stata una sorta di spirito utopico e creativo: fra i rifugiati politici, gli artisti e gli esuli, c'era chi si era innamorato di quegli edifici e sognava di ristrutturarli. All'epoca divenne un culto, una forma di religione: essere un brownstoner».

Che cos'ha di particolare il gruppo di ragazzini del romanzo?

«Le differenze fra noi e il modo in cui mescolavamo queste differenze razziali, di classe e di visione su come vivere nella città. Eravamo come un laboratorio: non sapevamo come vivere l'uno con l'altro, ma abbiamo dovuto inventare un metodo. Uno zoo senza gabbie».

La strada era « la vita reale», in contrasto con il mondo dei genitori?

«C'erano due mondi: quello dentro la tua casa, dei tuoi genitori e di ciò che i tuoi genitori ritenevano vero e cercavano di insegnarti fosse vero; e quello fuori dalla porta di casa tua, il mondo che sperimentavi come reale, la strada. E la strada era incontestabile: potevi discutere con la realtà dei tuoi genitori, ma non potevi discutere con la strada».

Che cosa diceva la strada?

«Ho scritto vari libri per provare a dirlo, perché le verità della strada sono intricate e instabili: è come fare un esperimento con antichi alambicchi, in cui non sai mai che cosa succederà».

Che rapporto c'era con i genitori?

«Eravamo lasciati per conto nostro, ed era normale così. Le nostre vite erano totalmente sconosciute ai nostri genitori. Una cosa impossibile oggi: l'infanzia è sotto sorveglianza, come tutto il resto d'altronde...»

È un libro pieno di crimini.

«All'epoca la città era definita da una atmosfera di assoluta criminalità e ciascuno si definiva in relazione a essa: perciò eri un criminale o una vittima, o più cose insieme, e dal crimine eri affascinato, allarmato o spaventato. Le storie dei delitti più celebri attraversavano la città stessa: rapimenti di bambini, assassini nella metropolitana, serial killer... Enormi fascinazioni collettive trasformate in miti: l'omicidio di John Lennon è stato uno di quei momenti».

Il linguaggio richiama l'hard boiled, ma il romanzo non è veramente un crime, come afferma il titolo.

«Non nel senso di una detective story o di un racconto del mistero: è un romanzo sul crimine. Per anni ho avuto una attrazione potente nei confronti dell'idea più tradizionale di romanzo crime e credo che questa idea si sia attaccata a questi ricordi e a queste storie».

Come?

«È vero per questi personaggi, come per molte persone, che comprendiamo la violenza ricorrendo alla cultura popolare: le storie noir e di guerra, i western».

Queste storie sono anche la «tela» per comprendere l'intera realtà?

«Sì. Potrei trasformare la frase di Joan Didion - raccontiamo storie a noi stessi per vivere - in raccontiamo storie crime a noi stessi per sopravvivere».

Sono anche il modo per far rivivere il passato?

«Il mio lavoro è diventato sempre più una relazione archeologica con Brooklyn, attraverso cui cerco di rianimare e ricostruire un mondo perduto. Per questo mi serve l'aiuto di molte persone e delle loro voci».

Com'è questo mondo perduto?

«Credo stia diventando inconoscibile. Col passare degli anni, una delle cose più strane è accorgerti che i significati, i ricordi, le idee e le sensazioni sono sigillati nel tuo corpo e periranno con te; e, a quel punto, nessuno li conoscerà più. E allora cercare di tradurli in qualcosa di conoscibile è uno sforzo, sempre più difficile, che getta un sospetto nei confronti del romanzo storico: come raccontare un tempo che non abbiamo conosciuto intimamente? Io sento la responsabilità di rendere il mio mondo perduto ancora visibile in qualche modo».

Perché i ragazzi non hanno nomi?

«La mia storia riguarda lo spazio dell'intersoggettività: la realtà che esiste nello spazio fra gli esseri umani, e non dentro ciascuno di essi».

Fra le strade si svolge «la danza», un rituale in cui prevale sempre il più forte.

«È per me un argomento molto delicato. Già vent'anni fa avevo provato a dare un nome a qualcosa che non sopporta di essere nominato, ma che mi affascinava: qualcosa di altro da una mera esperienza criminale e che combinava paura, criminalità, ma anche affetto, fascinazione e, talvolta, componenti sessuali. Perciò ho fatto un secondo tentativo per cercare di renderla decifrabile: era la mia ossessione».

Che parte aveva in questa «danza»?

«Di solito ero in una posizione passiva; qualche volta in quella di consigliere, o di testimone, o di colui che trasformava tutto questo in un rito o uno scherzo. Non ero quasi mai l'esecutore. È un mondo che mi manca, ma per il quale non provo semplice nostalgia, come per un paradiso: era un mondo guasto. Ma, del resto, anche questo mondo lo è, in modo diverso».

Perché omaggia Henry Miller?

«In passato, per la maggior parte degli scrittori Brooklyn è stata un luogo da cui fuggire, senza mai guardarsi indietro e raccontarla.

Invece Miller dedica una parte, splendida, di Primavera nera alla sua infanzia a Brooklyn. E il suo Book of Friends è stato una fonte di ispirazione per me, per parlare con i miei amici che, attraverso le loro parole, hanno fatto rinascere le strade del mio quartiere e le hanno restituite anche a me».

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