Poche cose riescono ad essere stiracchiate secondo convenienza come i dati economici. Possono essere usati per ingenerare facili ottimismi o per tentare di spaventare la Poche cose riescono ad essere stiracchiate secondo convenienza come i dati economici. Possono essere usati per ingenerare facili ottimismi o per tentare di spaventare la gente quando si meditano stangate: un esempio recente fu il «situazione peggio del ’92!» inventato da Padoa-Schioppa nel 2006 per giustificare una raffica di tasse di cui, a conti fatti, non c’era alcuna necessità. La cosa migliore e più onesta da fare con questi numeri è, semplicemente, cercare di capirli e metterli nel contesto internazionale. Prendiamo quindi i dati rilasciati dal Tesoro nella «Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica per il 2009» dove, probabilmente a malincuore (sapendo quanto il ministro Tremonti tema gli allarmismi in periodo di crisi), le stime degli indicatori economici per l’anno in corso sono state adeguate a quelle dei principali uffici studi internazionali, con la previsione di una contrazione del Prodotto interno lordo del 4,2% seguita da una leggera ripresa nel 2010. Si tratta di un dato che conferma indubbiamente la profondità della crisi, ma che deve necessariamente essere letto in parallelo con i dati analoghi degli altri Paesi, per capire se è vero che, come sosteniamo da tempo, nonostante tutto l’Italia stia reggendo meglio degli altri alla tempesta economica mondiale. Se prendiamo in considerazione il semplice dato del calo del Pil, troviamo che esso è perfettamente allineato con quello medio dell’eurozona, vale a dire proprio -4.2% (stime del Fondo monetario internazionale) con Paesi che fanno segnare stime di rallentamenti ben peggiori: si va dal -8% dell’Irlanda, al -6,2% del Giappone fino al -5,6% della Germania, stati penalizzati dall’eccessiva dipendenza dalla produzione, che li rende più vulnerabili alle crisi di un’economia più lenta ma più flessibile e diversificata come la nostra. Siamo quindi nella media? Niente affatto. Guardiamo adesso qualche altro indicatore negli Stati nei quali il Pil si contrae di meno. La Spagna ad esempio: il suo Pil, storicamente puntellato dai fondi europei, è previsto in calo del 3% ma altri dati sono drammatici. Pochi giorni fa il governo del socialista Zapatero, colpito dallo sgonfiarsi della bolla immobiliare che ne aveva drogato la crescita negli anni scorsi, ha comunicato un pauroso tasso di disoccupazione pari al 17,4%, più del doppio del dato italiano, con molti economisti come Dominic Bryant di BNP Paribas, che prevedono un tasso di senza lavoro in Spagna pari al 23% per fine anno. Anche la Francia ha i suoi problemi: grazie ad enormi sovvenzioni statali al limite del legale, il calo del Pil è stimato simile a quello spagnolo e leggermente inferiore a quello italiano. È ovvio però che i puntelli a banche e industrie abbiano un costo e infatti già nel 2008 la Francia (al contrario dell’Italia) ha sforato il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil e la previsione per il 2009 dà un pesantissimo -5,6%, oltre un punto peggio di quanto previsto per l’Italia. Appare chiaro quindi che i nostri dati, messi nel corretto contesto internazionale, rivelino una situazione ben distante dal solito fanalino di coda e anzi, vicino alla, per noi insperata, condizione da primi della classe.
Non dimentichiamo infine che le previsioni sono fatte per essere smentite: se la ripresa dei mercati finanziari già in atto dovesse continuare, la crisi potrebbe presto essere un ricordo e un’opportunità per l’Italia di ripartire da un’inusuale posizione di vantaggio nei confronti dei partners europei.Claudio Borghi
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