 
I pubblici ministeri fanno i giudicanti nei processi tributari e lo fanno contemporaneamente al loro ufficio di inquirenti (a volte essendo indagatori penali per lo stesso fatto per cui sono anche giudicanti tributari).
In uno stato di diritto, qual è la nostra democrazia, non possiamo più tollerarlo. È vergognoso.
Quando nel 1992 fu pensata la norma istitutiva per la giustizia tributaria (momento nel quale non c’era ancora la legge costituzionale n. 2/1999 con cui fu introdotto il principio di “giusto processo”) si fece i conti con due fenomeni del tempo:
“Mani pulite”, che dal 17 febbraio 1992 in poi monopolizzò il processo democratico del Paese a tal punto da consacrare i pubblici ministeri a custodi della democrazia;
le risorse umane, nel senso che i giudici tributari professionali e di ruolo non sono mai esistiti nella storia della repubblica (tant’è che solo con la legge n. 130/2022 è stata prevista definitivamente la nascita della magistratura tributaria).
Proprio in base a ciò va considerato il problema di fondo: la commistione giudiziaria tra pm indagatore e giudicante.
Nonostante la riforma del 2022, di giudici tributari professionali e per concorso non se ne vedrà l’ombra per alcuni anni ancora: bisognerà aspettare l’esito del concorso 2024 per i primi 146 posti al fine di verificare un eventuale miglioramento complessivo in termini di imparzialità processuale. Infatti di questo si tratta: imparzialità processuale; quest’ultima, mortificata e violentata per decenni a discapito dei contribuenti italiani che si ricordi bene (e fino allo sfinimento) sono cittadini innocenti fino a passaggio in giudicato di una sentenza e non evasori a priori.
Ebbene, se il vostro giudice fosse pagato dal vostro avversario processuale (in questo caso l’Agenzia delle Entrate e sue articolazioni) vi sentireste davvero di essere in un giudizio animato da equità e qualificabile come giusto?
Su quest’ultimo passaggio, in ogni caso, occorre fare un ulteriore distinguo: equo non è sinonimo di giusto. Non lo è per la nostra Costituzione e non lo è per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nel primo caso la Costituzione italiana (art. 111) ci parla del principio di giusto processo regolato dalla legge come attuazione della giurisdizione (quindi estensione di un potere dello Stato ovverosia giurisdizionale). Quindi il parametro di giustezza è, sostanzialmente, legato al come la legge tributaria (in questo caso il D.lgs. 545/1992) ha investito i pm della stessa possibilità di essere decisori di una causa al pari di magistrati giudicanti provenienti da altri settori (civile, amministrativo, ecc.) o funzioni (gup, gip, giudicante, esecuzione civile o penale, sorveglianza, ecc.).
Nel secondo caso la CEDU - Convezione europea dei diritti dell’uomo - prevede (art. 6) il c.d. “equo processo” come diritto inviolabile dell’individuo e non come estensione applicativa di uno dei poteri dello Stato aderente al trattato. Tant’è che per i valori e principi europei in questione “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”.
Come si diceva in precedenza, “giusto” ed “equo” non sono sinonimi a maggior ragione dopo quanto esposto: mentre il giusto processo richiede che il giudice sia terzo ed imparziale (quindi requisito soggettivo del membro del collegio giudicante - che potrebbe essere un P.M. e che, pertanto, può non conoscere o non essere amico del funzionario, direttore, ministro dell’economia, ecc. quali rappresentanti della parte fiscale contrapposta al cittadino nel processo tributario), l’equo processo necessita che sia il tribunale in quanto organo ad essere imparziale e terzo rispetto alle parti (ciò implicando che tutti i membri del collegio giudicante non devono essere pagati dalla controparte direttamente o indirettamente e/o ricoprire incarichi di accusa o indagine al contempo dato che la mentalità accusatoria è insita nell’ufficio ricoperto e per il quale si è chiamati a fare il decisore nel processo tributario).
Infine, delle due l’una: un pm che va a fare il giudicante nel settore tributario o ha molto tempo da poter dedicare ad altro (che non siano indagini) oppure vale il contrario ovverosia che sottrae tempo ed energie a svolgere l’esercizio dell’azione penale.
Vi fidereste ancora di questa giustizia?
La separazione delle carriere, pertanto, è sicuramente
doverosa, ma occorrerebbe un salto di qualità ulteriore: il divieto di commistione delle carriere.Un esempio in più? I magistrati, ancora in ruolo, chiamati a fare i consulenti per i Ministeri (quindi nel potere esecutivo).