
Nove anni sono una vita, anche perché la pena richiesta per Ciro Grillo (and friends) comprende anche i sei anni trascorsi dall’inizio dell’indagine: un tempo che pesa non soltanto perché è l’architrave della giovinezza, il che è ovvio, ma perché misura la distanza incolmabile tra chi è giudicato e chi giudica: che siamo noi, prima ancora dei giudici; siamo noi (pubblico e giornalisti) che abbiamo dapprima saccheggiato i social network per immortalare un Ciro Grillo festaiolo, con il drink in mano, gli abbracci a gruppi di ragazze e gli addominali scolpiti e gli allenamenti di kick boxing (nel 2019) e siamo sempre noi, ora (nel 2025) a stupirci se «è sembrato a tutti un altro» perché «è esattamente quello che voleva... trasmettere un’immagine diversa», ha scritto un giornalone: come se, dopo tanto tempo, le immagini, non potessero essere entrambe vere. Perché la vita corre.
E sei anni sono tanti, e nove anni sono una vita.
Lo sono per una generazione cresciuta dentro una rete di valori, esperienze, parole e codici spesso indecifrabili per chi osserva da fuori. Il procuratore, nel suo atto d’accusa, ha riconosciuto agli imputati le attenuanti generiche. Non ha invocato il massimo della pena, non ha infierito. Ma il conto finale resta pesantissimo. La ragazza, dice l’accusa, «non poteva esprimere eventuale consenso», perché era ubriaca, come gli altri, ma soprattutto «non presente a se stessa».
Una condizione che la rendeva vulnerabile, incapace di difendersi. E questa, dal punto di vista del diritto, è violenza. Punto. Qui si ferma il codice e comincia la domanda forse più difficile: che cosa sappiamo davvero di quei ragazzi, della loro idea - se ne avevano una – di che cosa è giusto e che cosa no?
Quanto capiamo, «noi», del modo in cui quella generazione vive e parla e si relaziona? Noi abbiamo e siamo la Legge, noi siamo il mondo adulto costretto a incasellare quei ragazzi in accuse e difese, vittime e carnefici, siamo l’imprevista regolamentazione del «gioco» anche tragico a cui loro pensavano di partecipare.
C’è qualcosa che accomuna tutti gli interrogatori, in questo processo: sembrano tutti credibili, sempre distanti dalle nostre classificazioni morali e giurisprudenziali. Guardiamo le loro foto del 2019: volti ancora segnati dall’adolescenza, bambini cresciuti nel benessere e nell’assenza.