
Sentite questa storia: una startup inglese che si chiamava Builder.ai, sostenuta da Microsoft e dal fondo sovrano del Qatar (che ormai investe con lo stesso entusiasmo con cui un ventenne clicca “accetta” sui termini e condizioni di TikTok), prometteva di costruire software tramite intelligenza artificiale, di permettere anche a chi non sa nemmeno cosa significhi “backend” di creare un’app come se fosse un oggetto Ikea, senza bisogno di sapere cosa sia il cacciavite.
Solo che poi si è scoperto che dietro al pannello trasparente che avrebbe dovuto mostrare l’algoritmo c’era in realtà un gruppo di sviluppatori indiani, i quali scrivevano il codice manualmente, riga dopo riga, come negli anni Novanta. Il Financial Times, che quando pubblica qualcosa di tanto imbarazzante per una tech company lo fa sempre con quella sobrietà inglese che rende tutto ancora più spietato, ha rivelato i ricavi dichiarati da Builder.ai: nel 2024 non erano 220 milioni di dollari ma 55, e nel 2023 non 180 ma 45, un buco di oltre il 75% spacciato per successo, una bolla presentata come innovazione.
Una delle tante illusioni da pitch deck con grafici colorati che salgono sempre anche se nessuno capisce cosa stiano rappresentando (di solito: niente). Per farvela breve, l’azienda prometteva di essere una specie di AI-factory modulare, dove bastava descrivere l’idea e l’intelligenza artificiale avrebbe fatto tutto il resto, dall’interfaccia utente alla gestione del database. In realtà usava metodi tutt’altro che automatici, ovvero squadre di sviluppatori che rispondevano manualmente alle richieste.
Agli occhi dei clienti dovevano sembrare un’intelligenza artificiale sofisticata (e probabilmente lavoravano anche meglio di molte AI vere, solo che a fine giornata volevano essere pagati, cosa che nessuna macchina osa pretendere, almeno per ora). Il fondatore, Sachin Dev Duggal, con un profilo perfetto da copertina LinkedIn (visionario, sorridente, fluente nel gergo da conferenza TEDx) si è dimesso, tuttavia è rimasto nel consiglio d’amministrazione (come quei coinquilini che dicono “mi trasferisco” e continuano a dormire sul divano e a mangiarti i cereali), e adesso è sotto indagine, perché dopo che il creditore principale, Viola Credit, ha bloccato 37 milioni di dollari dai conti aziendali lasciando in cassa meno di cinque, l’azienda ha dichiarato insolvenza.
Non prima di aver raccolto oltre 400 milioni di dollari da investitori convinti di aver scoperto l’oro digitale, quando invece avevano finanziato un call center travestito da AI. Ecco, è qui che secondo me sta il paradosso più interessante, il cortocircuito perfetto, perché in un’epoca in cui si dice che l’intelligenza artificiale sostituirà gli sviluppatori, qui sono stati gli sviluppatori veri a fingersi AI per non farsi sostituire. Insomma, l’unico modo per restare dentro il sistema era diventare la maschera del sistema: indiani (anche competenti nel settore) travestiti da automazione, messi lì replicare il comportamento di una macchina per giustificare il proprio impiego.
Una specie di teatro dell’assurdo digitale dove non è la macchina a simulare l’uomo, ma l’uomo a simulare la macchina (e farlo così bene da convincere perfino Microsoft). Tipo un remake aziendale dei Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, solo che invece che sparire una volta sparivano tutti dentro l’algoritmo. Il business, in questo caso, non era l’intelligenza artificiale, era l’imitazione credibile dell’intelligenza artificiale, era fingersi algoritmo per restare nel mercato, era vendere l’idea che non esiste più il lavoro umano mentre il lavoro umano lo facevi tu, ma in incognito, in silenzio, nascosto sotto uno strato di buzzword, mentre dall’altra parte del mondo qualcuno diceva che eri una funzione neurale ottimizzata, mi pare una vicenda molto emblematica.