Quando il ribelle firma la lista dei divieti: i grandi comici addomesticati in Arabia Saudita

Non si placano le polemiche sul Riyadh Comedy Festival, né quelle sui blogger e sugli artisti che lo difendono

Quando il ribelle firma la lista dei divieti: i grandi comici addomesticati in Arabia Saudita
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Non si placano le polemiche sul Riyadh Comedy Festival, né quelle sui blogger e sugli artisti che lo difendono (e te credo). C’è chi scrive editoriali indignati, chi pubblica post di scuse, chi rivendica la libertà di fare battute anche nel deserto, e nel frattempo gli stessi comici che si proclamano paladini della libertà d’espressione vengono accusati di essersi venduti al regime, avendo firmato contratti con la lista delle parole e dei discorsi proibiti. È vero, è falso? Insomma, un po’ vero è.

Dicono che il Riyadh Comedy Festival sia stato un successo, e in un certo senso lo è stato: è riuscito dove nessun regime era ancora arrivato, trasformare la censura in intrattenimento. I comici occidentali, quelli che da anni difendono la libertà d’espressione (e devo dire che i grandi comici anglosassoni colpiscono sempre tutti, destra, sinistra, religioni, LGBTQ+, argomenti politicamente corretti e ogni tradizionalismo), hanno accettato di non parlare di religione, di non scherzare sulla famiglia reale, di non toccare la politica, la sessualità, la guerra, la satira stessa. In pratica, potevano fare tutto tranne quello che fanno sempre.

Ancora più paradossale se si pensa che parliamo di comici famosi proprio per il contrario, per la loro capacità di prendere in giro appunto chiunque, in ogni Stato americano, anche il pubblico stesso, anche gli abitanti del posto che li paga, anche le categorie più intoccabili. Bill Burr, Dave Chappelle, Louis C.K., Kevin Hart, tutti cresciuti nell’eredità di George Carlin, di Richard Pryor, di quella tradizione americana che ha trasformato il comico in un ribelle civile, in un osservatore spietato e libero, senza schemi, senza ideologie. Sono stati fondamentali per questo, hanno insegnato che la libertà di parola non si difende con i comunicati stampa, piuttosto con il coraggio di parlare di tutto. Proprio per questo che oggi fa impressione vederli addomesticati a accettare regole imposte da un regime, farsi censurare in nome della libertà, limitare la voce proprio nel momento in cui dovrebbero incarnarla, altrimenti è troppo comodo e saltano fuori troppe contraddizioni.

Bill Burr ha liquidato le accuse come “bugie”, chiamando i critici “sanctimonious cunts” e “phoney” (Guardian), e ha raccontato che il pubblico saudita era “vero”, che gli avevano solo chiesto di evitare “due o tre argomenti” (Hollywood Reporter), come se bastasse contarli per ridurne il peso. Dave Chappelle, invece, ha detto che in Arabia Saudita c’è più libertà di parola che negli Stati Uniti (Entertainment Weekly), che è come dire che in un carcere si respira meglio che in un parco, tecnicamente possibile, moralmente ridicolo.

Il Guardian ha parlato di “tensione tra intrattenimento e diritti umani”, un eufemismo: quel festival non è stato un evento artistico, è stato un’operazione di cosmesi geopolitica, un modo per lavare via con un microfono i cadaveri di Khashoggi e dei dissidenti incarcerati, e l’assurdo è che proprio chi vive di parole, chi ha costruito la propria carriera sul diritto di dire tutto, ha accettato di firmare un contratto che stabiliva cosa non dire.

Mi viene in mente Red Ronnie, che negli anni Ottanta rifiutò di intervistare i Queen perché andarono a suonare a Sun City, in Sudafrica, durante l’apartheid. All’epoca si parlava di boicottaggio morale, eppure i Queen suonarono le loro canzoni, non quelle del regime, e poco dopo cantarono anche a Budapest, che era ancora sotto l’Unione Sovietica, sempre le loro canzoni, sempre nello stesso modo. Non è una questione di dove ti esibisci, è una questione di quando ti adatti. Ve lo immaginate Freddie che canta agli ungheresi I want to break free? Così come ha fatto in altre nazioni, tale e quale.

La comicità, dicono, serve a dire l’indicibile, evidentemente però dipende dal cachet. È più facile criticare Hollywood da Los Angeles che la monarchia da Riyadh, più comodo ironizzare su Trump che su un principe ereditario. Se qualcuno ti accusa di incoerenza, rispondi che il pubblico era straordinario, che ridevano tutti, si sono sbellicati, come se ridere fosse la misura della libertà dopo che hai accettato cosa non dire.

Questi comici, che io stimo moltissimo, hanno rappresentato per decenni l’idea che la parola potesse ancora cambiare qualcosa, e non è poco.

Tuttavia oggi sembrano partecipare a una parodia di se stessi, dove il comico ribelle diventa ambasciatore di moderazione, il provocatore diventa diplomatico, l’irriverenza diventa protocollo, e la satira, che un tempo era il termometro del potere, ora misura solo la temperatura dell’aria condizionata nel backstage. Comunque sì, forse in Arabia Saudita si può parlare più liberamente che in America: basta non dire niente.

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