
Oltre quarant'anni di misteri, 27 vittime, un unico filo conduttore. È il caso del mostro di Bargagli, un piccolo centro dell'entroterra genovese dove, tra il 1944 e il 1985, si è verificata un'insolita scia di sangue, che non ha visto responsabili, ma che si è chiusa anche con alcuni misteriosi suicidi. Il programma Psiche Criminale - Cold Case, in onda sul canale 122 Fatti di Nera, si è occupato del caso, ai più sconosciuto. Le piste ricorrenti partono dal contrabbando di carne nel tempo di guerra, con vendette trasversali e persino un tesoro sottratto ai militari in fuga nel 1945. Ancora oggi, nessun delitto è stato risolto e, quindi, non c'è colpevole per la morte di 27 persone in quel piccolo centro in provincia di Genova.
Il primo delitto si è consumato il 12 febbraio 1944: l'appuntato dei Carabinieri Carmine Scotti, che aveva colpito duramente la cosiddetta “banda dei vitelli” del mercato nero della carne, venne attirato in paese, sequestrato e ucciso con ferocia. Questa è la prima tappa di una catena che si sarebbe intrecciata con regolamenti di conti del dopoguerra. A ridosso della liberazione, altre uccisioni e un'esplosione in piazza durante i festeggiamenti fecero crescere il bilancio di sangue. Fu aperto un fascicolo, ma l'inchiesta non portò a nulla. La cronaca si riaccese negli anni Sessanta, quando Federico Musso, il becchino del paese, venne trovato senza vita nella campagna ligure. Bargagli tornò a vivere nella paura mentre le voci sul tesoro circolavano ancora. Qualche anno dopo, fu la volta di Maria Assunta Balletto, ex partigiana, trovata morta con il cranio spaccato. La scia di sangue ormai era diventata un caso nazionale: gli investigatori arricchirono il fascicolo di ulteriori dettagli, ma l'identità del serial killer è rimasta un mistero.
Anche se iniziò tutto nel secondo dopoguerra, sulla lunga catena di delitti solo nel 1974 il sostituto procuratore Luigi Carli, lo stesso che condannò i brigatisti rossi genovesi, aprì finalmente un'inchiesta. I sospetti caddero anche su Francesco Pistone, ex carabiniere e partigiano, accusato di aver attirato Scotti in un agguato mortale. La reazione fu immediata: il sindaco comunista Luciano Boleto accusò Carli di voler criminalizzare la Resistenza. Messo sotto pressione, il magistrato chiuse l'inchiesta per insufficienza di prove. Nel frattempo, a Bargagli si continuò a morire. La baronessa Anita De Magistris, pianista e direttrice del coro parrocchiale, venne presa a sprangate il 30 luglio 1983 e morì qualche giorno dopo. La scia di omicidi e misteriosi incidenti si concluse solo nel 1985, quando proprio Pistone venne trovato impiccato al soffitto. La sua fu l'ultima morte violenta di una misteriosa saga di orrore rimasta un clamoroso cold case.
“La mia idea sul mostro di Bargagli – ha illustrato il criminologo Emiliano Fabbri – è che si trattasse di una banda ben organizzata, con una gerarchia chiara, che ha commesso gli omicidi seguendo un filo comune. Le vittime avevano tutte una rilevanza sociale, ma si erano ribellate agli accordi presi. Quando non sono state più condivise le idee, sono arrivate le prime ribellioni. C'era chi collaborava con la mano armata, ma dava solo un supporto logistico, seguiva una strategia geografica, si occupava dell'occultamento delle prove e del controllo delle vittime. Secondo me si era rotta la gerarchia che si era creata all'interno ma, visto che è una scia che dura un arco temporale di diversi anni, le persone erano invecchiate e non erano più in grado di commettere omicidi così efferati. Bargagli resta un caso poco conosciuto perché il periodo storico in cui si svolge è troppo ampio e lontano dai giorni nostri, a differenza del mostro di Firenze, che ha un arco più breve e un'attenzione maggiore, poiché i delitti erano più ravvicinati e davano più ansia e notizia. Sicuramente gli aspetti mediatici e culturali sono diversi”.
In Italia, però, sono centinaia i casi irrisolti e solo una piccolissima percentuale di questi viene riaperta e risolta. Se trascorrono cinque anni, la percentuale di risoluzione crolla ulteriormente, poiché a distanza di tempo diventa sempre più complesso avviare le indagini. “Riaprire i casi – ha aggiunto Fabbri – è giusto, soprattutto per chi ha perso un caro e non ha avuto la verità. Spesso sono casi legati a indagini non fatte in maniera adeguata, dove sono state ignorate alcune prove importanti o si è dato più peso a una situazione a differenza di altre, tutte situazioni che non aiutano a risolvere il caso. La riapertura non è sempre semplice perché ci sono reperti mal conservati, le testimonianze non sono state prese in maniera corretta, oppure non portano alla risoluzione del caso o a indirizzare sulla strada più corretta e precisa. In passato, poi, mancavano le tecniche per la raccolta delle prove scientifiche. In Italia si sta recuperando terreno da questa arretratezza nelle indagini. Negli Stati Uniti esiste una cultura investigativa, con reparti specializzati, squadre di criminologi, psicologi, analisti forensi, biologi e una formazione specifica prima di essere arruolati, mentre in Italia spesso il criminologo non è considerato e valorizzato. Oggi servono nuove metodologie multidisciplinari: non esiste solo il reparto scientifico per risolvere gli omicidi”.
Secondo l'avvocato Roberta Gentileschi “non ricevere giustizia è difficile da sopportare, soprattutto quando non si trova il responsabile per la morte di un proprio caro. In alcuni casi, poi, le scomparse risultano ancora peggiori: piangere su una tomba ti fa rassegnare, non sapere cosa è accaduto alimenta una speranza che non finisce mai. Inoltre, ci sono casi in cui la pena è più mite, la percezione di giustizia è diversa, ma in quei casi è una questione di legge. Per fortuna, quando c'è l'archiviazione, le indagini possono essere sempre riaperte con elementi nuovi.
Anche noi avvocati dobbiamo aiutare le famiglie quando c'è una situazione senza responsabile, raccogliere degli elementi che, anche a distanza di anni, spingono il pm a chiedere l'autorizzazione alla riapertura delle indagini”.