
I punti chiave
Settecento rapine in quattro anni. Un bottino - stimato - di oltre 15 miliardi di vecchie lire. Un processo con 59 imputati e 279 parti lese. I numeri del caso della Banda dell’Arancia Meccanica sono ragguardevoli. E se non fosse stata una vicenda reale, si crederebbe fosse un film: d’altra parte la Banda prendeva il nome proprio da un film, Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, tratto dall’omonimo romanzo postmoderno di Anthony Burgees. Ma tra libro e realtà c’è una grossa differenza: Burgees accluse al libro, principalmente per ragioni di censura, un capitolo in cui ascrisse rapine e violenze compiute da un gruppo criminale a una fase della giovinezza. Cosa invece accadde a Roma tra il 1979 e il 1983 fu decisamente più complesso.
La complessità, anche se in un contesto romanzato o romanzesco, viene colta nel romanzo La Banda dell’Arancia Meccanica di Massimo Lugli, uno dei giornalisti che c’era, che ha raccontato l’orrore e che ha vissuto un contesto che vale la pena tornare a narrare. “Io seguii la vicenda in quanto giovane giornalista di Paese Sera e con il mio romanzo ho voluto rievocare l’atmosfera di quegli anni, il clima di quella città in un periodo così difficile e sanguinoso, ma anche pieno di bellissima musica, raccontando anche come si faceva giornalismo, anche se non attraverso il mio solito alter ego, inventando il personaggio di Marco Berilli e la sua relazione con un’altrettanto inventata giornalista de L’Unità, quando certe caratteristiche si iniziarono a definire ‘radical chic’. Insomma ho fatto galoppare molto la fantasia”, racconta Lugli a IlGiornale.
Il caso Arancia Meccanica
È il 1979: Agostino Panetta, nato nel 1959, è un ventenne molto diverso da tanti altri. È figlio di un poliziotto e, giovanissimo, ha deciso di entrare anche lui nella celere, però a Torino, non nella natia Torre Angela. Il 3 gennaio di quell’anno compie la prima di tantissime rapine per strada. Ed entro la fine dell’anno ritorna a Torre Angela, dove nel bar Paquito di via Coribanto trova i suoi sodali, tra cui Maurizio Verbena e Giuseppe Leoncavallo.
“Mi piace raccontare le indagini di una volta, senza la pervasività della tecnologia. Fino alla fine degli anni ’90 non c’erano in ogni dove le telecamere di videosorveglianza, quindi la Banda dell’Arancia Meccanica agì a volto scoperto: i banditi indossavano i guanti ma si sentirono così al sicuro da non indossare una maschera. La vicenda mi colpì, anche perché non ebbe la rilevanza che avrebbe oggi: erano anni di sangue a Roma, tra la banda dei Marsigliesi appena finita e quella della Magliana agli albori, il terrorismo rosso e quello nero”, precisa l'autore del romanzo ispirato alla vicenda.
Il modus operandi cambia nel tempo. Dapprima la Banda dell’Arancia Meccanica si dedica a rapine per strada nei quartieri ricchi di Roma. Poi si passa alle rapine in casa, ed è lì che iniziano anche le violenze sessuali. Anche alcuni vip restano coinvolti da sopravvissuti, e tra loro si annovera l’attore Fabio Testi. “Una delle caratteristiche della Banda dell’Arancia Meccanica era la capacità di instaurare in chi rapinavano una specie di sindrome di Stoccolma. Accadde con alcuni vip, che sporsero denuncia solo giorni dopo, perché avevano fatto un accordo con i banditi, per ricomprare i propri gioielli da un ricettatore. Non sempre accadde, per paura che si trattasse di una trappola. A volte chiacchieravano, si fermavano per mangiare: miravano a fiaccare la volontà delle vittime, dato che in molte case c’era una cassaforte e ci voleva tempo per scovarla. Il risultato era un clima spaventoso di complicità: si parlò di oltre 700 rapine, ma molte non furono denunciate. E questa può essere una delle ragioni per cui, per alcuni anni, questo gruppo criminale è stato imprendibile”.
L’arresto e il giudizio
Il 16 aprile 1983 la Banda commette un errore: durante una rapina ai Parioli, promette che sarebbe ritornata a colpire. Ma quando torna, trova ad attenderla i carabinieri. Panetta e Leoncavallo vengono arrestati subito, mentre Verbena fugge, per poi essere acciuffato nel 1984 a Perth, in Australia. “La catena delle rapine venne scovata da un ufficiale dei carabinieri, Carlo Felice Corsetti, che mise insieme gli indizi con un computer dell’epoca, una macchina enorme che veniva usata per una delle prime volte. Corsetti si rese conto che gli autori delle varie rapine erano gli stessi, ma una era stata denunciata ai carabinieri dell’Olgiata, una alla polizia di Ponte Milvio, un’altra all’Appio… tutti questi dati non erano stati digitalizzati, al tempo non si faceva”, aggiunge Lugli.
Il processo ha inizio nel 1986 e - a sorpresa - Panetta e Verbena decidono di raccontare tutto. Vengono condannati tutti e tre: Panetta a 23 anni di carcere, Leoncavallo a 22, Verbena a 18. La vicenda criminale si chiude quindi, ma gli echi di ciò che la Banda aveva commesso - anche in termini di stupri - restano nell’aria, diventando molto più che una sinistra leggenda, bensì una storia realmente accaduta, che forse oggi, con il Grande Fratello della videosorveglianza pubblica e privata, non potrebbe fortunatamente riaccadere.
“Nel libro ci sono molte invenzioni. Invento il periodo milanese del capo della Banda dell’Arancia Meccanica, invento di farlo restare nella polizia, anche se nella realtà Panetta si era già dimesso quando iniziarono le rapine. Nella realtà, a differenza di quello che scrivo, la Banda non sparò neppure un colpo, pur commettendo ogni sorta di reati, tra cui lo stupro, che non gli fu comminato, perché le donne violentate - almeno 7 secondo il racconto dello stesso Panetta - non sporsero denuncia. In più all’epoca lo stupro era un reato contro la morale. Però laddove tra le mie pagine ci si interroga sulla possibile reticenza delle donne a parlare della violenza subita è reale: siamo nel 1979 e il ‘processo per stupro’ è avvenuto pochi anni prima, e in quell’occasione gli avvocati chiesero alla sopravvissuta se avesse provato piacere. Sono stati fatti passi da gigante, ma allora era spaventoso”.
Un film e un romanzo
“Abbiamo fatto piangere troppa gente in tutti quegli anni e anche io ero pieno di cicatrici. Un anno prima non avrei ascoltato il Rozzo, non sarei andato a intrappolarmi in quella villa. Ma allora avevo voglia di perdere”. È il monologo finale che Valerio Mastandrea recita come voce fuori campo nel finale de L’odore della notte, secondo dei tre soli lungometraggi fictional realizzati dal maestro del cinema Claudio Caligari. La pellicola è liberamente ispirata alla vicenda della Banda dell’Arancia Meccanica, con la differenza che tra i vip rapinati si mostra un inedito Little Tony, alle prese con l’interpretazione di se stesso, che Lugli definisce, a ragione, "eccezionale".
La pellicola è un vero e proprio capolavoro del genere, ed è interessante perché sicuramente si può dire che discenda dalla tradizione dei film poliziotteschi (come Milano calibro 9), ma potrebbe essere considerato il precursore dei vari Romanzo criminale, Suburra, Gomorra e così via, ovvero l’opera cinematografica o seriale ispirata più o meno liberamente al true crime.
“Nei poliziotteschi c’erano buoni e cattivi, mentre nel film di Caligari viene posto l’accento sull’odio per i ricchi. In qualche modo indaga anche nel background sociologico, indagando sulle motivazioni e cercando di andare oltre alla solita logica della punizione per il crimine.
Naturalmente non lo si vuole giustificare, ma quegli anni erano immersi nella lotta di classe: anche io nel mio romanzo ho voluto creare un antieroe, la sua rabbia e non l’ho giustificato in alcun modo”, conclude Lugli.