Scena del crimine

"Lui, lui e l’altra. Quel delitto del nano al bando del politicamente corretto"

Massimo Lugli parla del suo romanzo "Il giallo del nano della stazione", che racconta dell'omicidio di Domenico Semeraro: "Fu una storia d'amore"

Una scena de "L'imbalsamatore" di Matteo Garrone
Una scena de "L'imbalsamatore" di Matteo Garrone

“Il giallo del nano della stazione”, uscito nel 2022, è il nuovo romanzo di Massimo Lugli, ex cronista di Paese Sera e Repubblica, oggi opinionista di nera in tv e molto attivo sui social, dove commenta le notizie del giorno. Nel romanzo si parla della vicenda, arricchita dalla creatività dell’autore ma con parti storicamente accurate, dell’omicidio di Domenico Semeraro, conosciuto anche come “il nano di Termini”.

Semeraro era una comparsa cinematografica e un imbalsamatore: a lui si era ispirato anche il regista Matteo Garrone nel film “L’imbalsamatore”. Tra le varie ragioni per cui Semeraro era stato noto negli anni ’70, il processo per oscenità relativo a una scena di “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci. Il film era tra l’altro ispirato alla storia di un’antenata di Semeraro, una serial killer chiamata dalla stampa dell’epoca “nonna belva”.

Il 26 aprile 1990 Domenico Semeraro fu trovato morto, infilato in un sacco per la spazzatura in una discarica abusiva sulla Prenestina. Era stato picchiato e strangolato con un foulard: a essere condannato per il crimine fu Armando Lovaglio, all’epoca un giovane assistente imbalsamatore con il quale il “nano di Termini” aveva sviluppato una relazione, in realtà un triangolo sessuale che comprendeva anche la giovane Michela Palazzini con cui Lovaglio avrebbe voluto condividere la vita. Una sera di aprile però, durante un litigio concitato, Semeraro minacciò Lovaglio con un bisturi.

Nel romanzo di Lugli, come detto, è contenuta la vicenda, arricchita di personaggi inventati o ispirati a persone reali. Come l’alter ego letterario di Lugli Marco Corvino, un giovane cronista molto preparato, che si ritrova a essere cruciale per la risoluzione del caso. Ma i nomi sono stati cambiati: Armando Lovaglio diventa Alessio, Domenico Semeraro diventa Lele Mastrostefano.

Lugli, perché questo delitto ha colpito l’immaginario collettivo?

“Ho seguito quest’omicidio da giornalista dall’inizio alla fine. E quello che ci sconvolse furono secondo me due elementi. Il primo: il fatto che ci fosse un nano. Perché il nano è stato sempre un elemento di curiosità, qualcosa che ci affascina”.

E poi?

“Il secondo: quest’intreccio di sesso. Cioè il sesso tra lui, lui, l’altra, un triangolo rovesciato. In quell’occasione la squadra mobile che aveva risolto il caso - anche se c’era poco da risolvere, i ragazzi si consegnarono - aveva tutte le ragioni per tenere viva l’attenzione. Siccome non c’erano segreti, come per esempio a via Poma, gli inquirenti davano in abbondanza verbali, carte. C’era tutta questa storia torbida del menage a trois che sollecitava la fantasia. Credo però che siamo in anni diversi”.

In che senso?

“Oggi un caso del genere, credo, sarebbe trattato con molto più rispetto. Ma ancora, allora, il politicamente corretto non era così imponente, incalzante come adesso”.

Davvero lei (come Marco Corvino) aveva già incontrato Semeraro?

“Sì, a me capitò - e forse questo mi ha tanto intrigato di questa vicenda - di intervistare Semeraro, che si presentò a Paese Sera. E tutto l’episodio raccontato è vero: non era una persona simpatica, non suscitava empatia. Tutto questo mi ha molto coinvolto quando seppi che era stato ucciso. Io collegai tutto, col fatto che l’avevo conosciuto. Non è frequente conoscere la vittima di un delitto, tranne che con il terrorismo: purtroppo ho diversi amici che sono stati uccisi, poliziotti, carabinieri. Una persona comune non te l’aspetti di ritrovarla uccisa, a meno che non sia un bandito”.

Ci sono altri tratti veri nel romanzo?

“Sì, avevo un rapporto privilegiato con la fonte. Ebbi molte possibilità: numeri di telefono, intervistai la Palazzini a lungo al citofono, vidi le foto del nano sulla pelle d’orso. Fui avanti agli altri colleghi: come sapete, è uno stato di grazia per un giornalista”.

Nel libro c’è un epilogo diverso (non lo dettagliamo per evitare spoiler). Ma è una possibilità che il crimine non sia stato commesso da Alessio/Armando Lovaglio?

“No, si tratta della mia fantasia. La storia è chiarissima, le perizie sono inequivocabili. Quel delitto è stato tra l’altro del tutto inutile. Il nano con il bisturi in mano poteva essere spostato, pesava 40 chili. Non c’era bisogno di ucciderlo, tra l’altro Semeraro non avrebbe mai colpito perché era perdutamente innamorato. Perché questa è una storia d’amore”.

Il giallo del nano della stazione

In questo libro, come in altri suoi, ci sono delle piccole digressioni sul politicamente corretto. È per dare la giusta collocazione temporale alla storia oppure crede che si sta esagerando con ciò che si può o non si può dire?

“La seconda. In uno degli ultimi aggiornamenti professionali cui sono stato - ora sono pensionato - risultava che la parola ‘badanti’ non si poteva scrivere. E io non avrei potuto scrivere in un titolo ‘Hanno ucciso un nigeriano di 32 anni’. Qui siamo alla follia, con tutto il rispetto. Secondo me c’è un’indigestione di politicamente corretto”.

Lovaglio ha scontato la sua pena e poi ha avviato una scuola di arti marziali con buone soddisfazioni, diventando un membro produttivo e stimato della società. Ha funzionato la riabilitazione o semplicemente era un giovane che si è ritrovato in un crimine più grande di lui?

“Nutro una grande compassione nei confronti di Lovaglio, che è stato un ragazzo sbalestrato. Era bello come un angelo, è apparso rispettoso e spaurito al processo. È stato traviato, ha trovato una figura anche paterna, che incombeva su di lui. Lovaglio non era un prostituto, ma aveva trovato in Semeraro una famiglia. E dopo si innamora [di Michela Palazzini, ndr]. Ci poteva essere un finale da soap opera, con il nano che diventa una specie di zio per il figlio di Armando e Michela. Possesso, gelosia, sesso, bramosia, sentimenti intricati: sono ciò che rende interessante questa storia. Poteva finire in mille modi”.

Crede che oggi ci siano delle storie di cronaca nera capaci di colpirci in questo modo?

“Sì, ce ne sono diverse. Le storie di nera sono le storie di passione e di criminalità organizzata. E appassionano sempre di più. Sono spesso ospite di ‘Storie italiane’ e vedo i casi trattati sul campo da giornalisti bravissimi. Liliana Resinovich, Melania Rea, Denise Pipitone: le storie ci sono e la gente si appassiona perché ha competenza. Non è vero che non ci sono più i crimini di una volta”.

Ci sono più difficoltà oggi o ce n’erano più ieri nel raccontare la cronaca nera, giornalisticamente parlando?

“La mia generazione è passata dalla stilografica al computer, una rivoluzione incredibile. Oggi si hanno più mezzi. Il cronista degli anni ’70 andava sul posto ed era la fonte, perché vedeva tutto. Oggi quando il cronista va sul posto e torna in redazione è bombardato da video, agenzie, varie fonti di cui deve tenere conto. Ieri inoltre il giornalista era pura scrittura: questo è il motivo per cui sono diventato giornalista.

Oggi i pezzi sulla carta stampata sono compressi, ma con il Web la scrittura sta tornando”.

Il giallo del nano della stazione

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