"Vi racconto il delitto di Luca Varani". Lagioia e la nostra epoca 'vittimista'

Luca Varani è stato ucciso nel 2016 ma Marco Prato e Manuel Foffo: la loro storia è nel libro e nel podcast "La città dei vivi" di Nicola Lagioia

"Vi racconto il delitto di Luca Varani". Lagioia e la nostra epoca 'vittimista'

La città dei vivi” di Nicola Lagioia è un libro intenso. Da un lato per lo stile raffinato con cui l’autore ha raccontato la vicenda, dall’altro per la vicenda in sé, quella di un vero omicidio. Nessun nome dei protagonisti è stato modificato: questo romanzo racconta la verità delle “carte”, delle confessioni, delle indagini.

E la verità è che il 4 marzo 2016 Roma vegliò bellissima e muta su uno degli omicidi più cruenti della cronaca degli ultimi anni, quello del 23enne Luca Varani. Per quel crimine fu condannato a 30 anni Manuel Foffo, 28 anni all’epoca dei fatti, mentre l’altro imputato, Marco Prato, 29 anni, che già all'indomani del delitto aveva provato a togliersi la vita, si suicidò in carcere alla vigilia della prima udienza.

Luca cercava di affacciarsi al domani, faceva studi serali, aveva una fidanzata che amava molto, Marta Gaia. Si era tatuato il suo nome. La notte in cui ha subito torture e violenze da Prato e Foffo, reduci da svariate ore di abuso di droghe, era stato contattato con un sms, non sapeva cosa lo aspettava.

Il caso ha colpito moltissimo l’immaginario collettivo, forse per la giovane età dei protagonisti, forse per l’efferatezza della dinamica omicidiaria. Anche lo scrittore premio Strega Nicola Lagioia fu catturato da questa storia, tanto da raccontarla appunto ne “La città dei vivi”, un romanzo diventato poi un podcast. “Bisogna continuare a riflettere, a raccontare”, dice Lagioia a IlGiornale.it.

Lagioia, cosa l'ha colpita dell’omicidio Varani, tanto da decidere di raccontarne la storia in primis in un romanzo/verità?

“È quello che cerco di spiegare, e di spiegarmi, in quasi 500 pagine di libro. Quindi mi è un po’ difficile riassumerlo qui. La letteratura, almeno spero, prova a dare conto di urgenze che, espresse in altre forme, risulterebbero solo contraddittorie o inesprimibili”.

Si è avvalso di documentazione e della partecipazione di giornalisti, come ad esempio Chiara Ingrosso. Perché ha ritenuto meglio raccontare una vicenda nella sua connotazione reale e non fictional?

“Ho letto gli atti. Ho incontrato tantissime persone legate al fatto. Mi sono confrontato con giornaliste come Chiara Ingrosso, con cui c’è stata una grande sintonia, e la stessa urgenza di cui parlavo sopra. In certi casi la letteratura può provare a indagare la realtà, dunque a usare tutta la sua forza retorica (i suoi strumenti conoscitivi, perfino il proprio codice emotivo), pur rinunciando alla finzione, allo scopo di gettare su quella realtà una luce che altrimenti non cadrebbe. La realtà, per essere letta, ha bisogno dello storico, del filosofo, del sociologo, dello psicologo, dello psichiatra, del teologo, e qualche volta persino di uno scrittore”.

Nel podcast come nel libro, Roma non è solo uno sfondo, ma quasi un personaggio che vive e respira. Che ruolo ha una città nel destino delle persone, o meglio in ciò che diventano?

“Non credo che Roma sia responsabile per ciò che è avvenuto. Certo, però, è una città che forgia caratteri e tipi umani, come tutte le grandi città. Quindi la sua influenza è sul ‘come’ più che sul ‘cosa’. C’è un modo di sentirsi liberi, o falliti, che è squisitamente romano. Così come ci si sentirebbe liberi o falliti, in maniera diversa, a Parigi o a Tokyo”.

C’è un episodio del podcast, come d’altra parte accade tra le pagine del romanzo, in cui si racconta in particolare chi era Luca Varani. Quanto crede esista oggi il rischio che la centralità della vittima si perda nella narrazione?

“Non credo che la vittima perda centralità, oggi, nel discorso pubblico. Il problema è piuttosto la vocazione vittimaria di tutti noi. Per una vittima reale (Luca Varani) ci sono 1000 aspiranti vittime che non sono tali, o non sono solo tali. Ci sentiamo vittime, e non pensiamo mai che siamo noi quelli in grado di poter fare del male. Crediamo di essere in credito di qualcosa, non ci sentiamo mai in debito. Rivendichiamo i nostri diritti, mai i nostri doveri. Questo è un problema. Se ci sentiamo tutti vittime, poi va a finire che le vittime vere non le vediamo più, o si confondono nel mucchio”.

Cosa resta oggi, a 7 anni di distanza, dei tre protagonisti di questa vicenda?

“Luca Varani è morto. Marco Prato si è suicidato in carcere. Manuel Foffo sta scontando la galera. Il mio pensiero va alle loro famiglie. Ci penso spesso, con dolore”.

A volte è accaduto che romanzi e altre opere che trattavano di crimini realmente accaduti fossero sotto accusa: secondo alcuni creerebbero il mito del criminale d’ispirazione alle nuove generazioni. Cosa ne pensa?

“La letteratura indaga da sempre il male. Da Sofocle a Shakespeare. Ci interessa il crimine perché lì si annida la parte di noi che non riusciamo a correggere, la violenza che non riusciamo a strapparci di dosso, il fallimento del nostro essere umani.

Continuare a interrogarsi significa non perdere di vista il male. Se lo perdi di vista, il male non scompare, diventa un oggetto di rimozione, e quindi continua a fare danni senza che tu te ne renda più conto. Bisogna continuare a riflettere, a raccontare”.

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