Adesso i critici osannano Baudo. Ma per anni è stato snobbato

È elogiato come simbolo di un’era irripetibile, ma era criticato dall’élite in quanto "nazionalpopolare"

Adesso i critici osannano Baudo. Ma per anni è stato snobbato
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Oggi tutti celebrano Pippo Baudo: maestro, re della tv, gigante. Per almeno un paio di decenni, agli occhi di critici, intellettuali e persino dirigenti politici, Pippo è stato il simbolo dell'Italia mediocre, conformista e democristiana. Evidente l'origine della colpa: non essere schierato dal lato giusto, il sinistro. L'Unità, e altri giornali d'area, già negli anni Settanta, lo accusavano di essere anacronistico, vecchio stile, ingannevole, col fiato corto, spettacolare solo nella sua modestia farcita di cliché.

"Nazionalpopolare" è un nobile termine coniato da Antonio Gramsci con un significato positivo. Ma con il passare del tempo è diventato un insulto che la sinistra, affetta da incurabile complesso di superiorità, rivolgeva all'Italia di Pippo, in netta maggioranza (silenziosa). Umberto Eco, nei suoi numerosi scritti sul tema, analizzava la tv generalista come espressione del potere, che scoraggiava lo sforzo individuale e abbassava la cultura media. Eco pensava forse a Mike Bongiorno ma il suo ritratto calzava perfettamente al modello baudesco. Alberto Arbasino ironizzava sugli show di varietà, definendoli prolissi e kitsch. Franco Fortini denunciava l'omologazione ideologica dei media. Nel 1973 Pier Paolo Pasolini, in un articolo sul Corriere della Sera, descriveva la televisione come il mezzo d'informazione più repressivo di sempre, accusandola di aver "lacerato l'anima del popolo". Tutti bersagliavano lo stesso fenomeno: la tv che unificava l'Italia a costo di appiattirne la coscienza. Baudo non era citato ma era ovvio che i lettori pensassero al conduttore più famoso, in quota democristiana. E democristiana era l'Italia renitente al "progresso" o meglio a ciò che una parte politica indicava come tale. La televisione contribuiva in misura decisiva ad anestetizzare il pensiero. Pippo faceva compagnia senza provocare, senza disturbare. Baudo replicava così: "Ho fatto la tv di tutti". A Sanremo, nelle tredici conduzioni, e negli altri show, cercò di conciliare alto e basso, pop e tradizione, serietà e sberleffo. Certo, non mancarono gli incidenti. Il più significativo, anche se non il più noto, fu l'intervista a Ugo Tognazzi, a Domenica In nel 1979. L'attore cremonese si rifiutò di rispondere alle solite domande, cercando di spostare l'attenzione sulla legalizzazione delle droghe leggere, sul terrorismo, insomma su argomenti scottanti. Baudo si oppose: "Non è così che abbiamo concordato l'intervista, non ci casco".

La stroncatura più clamorosa arrivò negli anni Ottanta. Il presidente della Rai, il socialista Enrico Manca, pronunciò, in un'intervista, una frase rimasta celebre: "Basta con questa tv nazionalpopolare... e non lo si prenda come un complimento". Il bersaglio era chiaro: Pippo Baudo e il suo modo di fare televisione. Era il 1987. In diretta, con milioni di italiani collegati a Fantastico 7, il conduttore replicò: "Allora farò programmi regionali e impopolari".

Alla sua morte, il giudizio è diventato unanime. Baudo non è più il volto dell'Italietta ma l'ultimo testimone di una tv che sapeva parlare a un Paese intero. Il paradosso è evidente: chi ieri lo accusava di rappresentare il "nazionalpopolare" come inganno o regressione culturale, ora lo celebra come simbolo di un'epoca irripetibile. La verità, forse, sta nel mezzo.

Baudo fu davvero il volto di quella tv democristiana e rassicurante, ma non si direbbe necessariamente un difetto, vista l'involuzione ingloriosa dell'ideologia progressista. Baudo ha celebrato la normalità, e l'impresa eccezionale, in Italia, è essere normale, diceva Lucio Dalla.

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