Scena del crimine

"Vi racconto di mio padre ucciso dai terroristi del Pac. E Battisti..."

Dopo quarantatré anni l'omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani, ucciso da un commando dei Proletari Armati per il Comunismo è diventato un film. Il figlio Alberto: "Abbiamo raccontato quei 25 giorni di inferno"

Alberto Torregiani: "Vi racconto di mio padre ucciso dai terroristi del Pac. E Battisti..."

Il 16 febbraio del 1979 un commando dei Proletari Armati per il Comunismo uccise il gioielliere e orologiaio Pierluigi Torregiani. L'omicidio si consumò nel negozio dell'artigiano, in via Mercantini, a pochi passi da piazza Bausan, a Milano. I tre responsabili del delitto – gli ex terroristi Giuseppe Memeo, Sebastiano Masala e Gabriele Grimaldi - vollero vendicare l'uccisione di un rapinatore al quale Torregiani aveva sparato durante un agguato al ristorante "Transatlantico"di via Malpighi, in zona Porta Venezia, il 22 gennaio 1979.

I giornali dell'epoca, in particolare i filocomunisti, etichettarano il gioielliere come "pistolero", fomentando l'odio delle frange eversive della sinistra degli Anni di Piombo. A farne le spese, il giorno della sparatoria mortale, fu anche Alberto Torregiani, il figlio dell'orafo. Nel tentativo di difendersi dai banditi, l'artigiano esplose un colpo di pistola che però finì per raggiungere il ragazzino procurandogli danni irreversibili alla spina dorsale.

Quarantatré anni dopo, l'omicidio del gioielliere è diventato un film, diretto dal regista Fabio Resinaro, andato in onda su Rai Uno mercoledì sera. La sceneggiatura trae ispirazione dal libro autobiografico "Ero in guerra ma non lo sapevo" di Alberto Torregiani: "Io ho ottenuto giustizia ma ci sono ancora molte vittime che non l'hanno ricevuta. Ho combattuto e combatto per loro", racconta alla nostra redazione.

"Ero in guerra ma non lo sapevo" è il titolo del suo libro. Cosa vuol dire?

"Nella Milano degli Anni di Piombo abbiamo vissuto un vero e proprio contesto di guerra. Una guerra dichiarata al Paese e alle istituzioni. Per le famiglie che non erano direttamente coinvolte nelle vicende politiche del tempo era difficile avere piena comprensione del contesto storico e del clima di tensione di quegli anni. Io e la mia famiglia lo abbiamo capito soltanto quando ci siamo finiti dentro: troppo tardi. Quel 'ma' sta proprio indicare che se ne avessimo avuta consapevolezza, forse, avremmo agito diversamente. Ma col senno di poi è facile ragionare".

Dal libro al film. C'è corrispondenza tra la narrazione cinematografica dei fatti e il vissuto familiare?

"Il film è incentrato sul periodo che va dal giorno della rapina al ristorante a quello dell'omicidio di mio padre. Abbiamo voluto raccontare gli avvicendamenti familiari, l'inferno in cui siamo finiti e che abbiamo vissuto in quei 25 giorni: la verità nuda e cruda. È una sorta di viaggio introspettivo che punta l'attenzione sull'aspetto emotivo di quello che poi, invece, è diventato un fatto storico".

Alberto Torregiani
Alberto Torregiani nel 2019 all'inaugurazione del giardino dedicato al padre

Nel film Pierluigi Torregiani è un genitore molto austero e severo. Che uomo è stato in realtà suo padre?

"Ovviamente quella è una caricatura cinematografica. Mio padre era un uomo sereno e sorridente. Per certo lavorava sodo ed era dotato di grande determinazione, era molto caparbio. Ma era capace di profondi cambiamenti. Basti pensare che aveva deciso di adottare tre ragazzini – me e le mie due sorelle più grandi – ormai non più in fasce. Era un genitore sicuramente severo ma, del resto, l'austerità di quegli anni imponeva un'educazione rigida. Va contestualizzato il quadro storico e sociale del tempo per poter capire la personalità di mio padre".

Dopo la rapina al ristorante a suo padre fu assegnata la scorta. Com'è stato vivere sotto protezione?

"La scorta era stata affidata a mio padre perché la procura aveva ravvisato una condizione di pericolo per la sua incolumità. Di conseguenza anche noi figli siamo stati costretti a rivedere le nostre abitudini. Per certi versi è stata una esperienza limitante per la quotidianità. Nel senso che, ad esempio, è capitato che ci tenessero d'occhio quando andavamo a scuola o al parco con il cane".

Poi arrivò quel drammatico giorno di febbraio. Cosa ricorda?

"Ricordo tutto. Non sono di certo esperienze che si dimenticano. Poi, per fortuna, la vita va avanti. In un modo o nell'altro, impari ad appropriarti del dolore e a conviverci pacificamente. Certo, qualche volta mi è capitato di pensare 'se non fossi stato lì...'.Però è facile ragionare col senno di poi. È andata così, purtroppo".

Hai mai più rivisto o incontrato gli assassini di suo padre?

"Sì, qualcuno ma non in modo particolare".

Le hanno chiesto scusa?

"Sì. Di recente anche Cesare Battisti lo ha fatto. Diciamo che 'ha lasciato intendere', ecco".

E le ha accettate?

"Non è questo il punto. Capisco che per i familiari di qualche vittima le scuse siano importanti ma per me non lo sono. O almeno, non trovo che siano così fondamentali. Poi è una questione molto pesonale, dipende dal carattere e dall'atteggiamento individuale rispetto agli 'imprevisti' della vita. Io sono andato avanti e ho imparato a star bene con me stesso.".

Però ha dovuto lottare per ottenere giustizia.

"Sì. E devo dire che ci sono riuscito. Però tengo a pecisare che non l'ho fatto per vendetta ma perché volevo ribaltare un'ingiustizia. Io ho avuto la 'fortuna' di essere supportato dai media e dagli organi di stampa a differenza di tanti altri. Ho lottato e lotto per coloro che non hanno ancora ottenuto giustizia.

Bisogna provarci, sempre".

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