Londra, la rete di Youssef in Italia e il legame coi "frati di Maometto"

Il padre del jihadista italo-marocchino di Londra era legato ai Tabligh Eddawa. E la Digos indaga sulla rete di contatti in Italia: "Controlli si 20 persone"

Londra, la rete di Youssef in Italia e il legame coi "frati di Maometto"

Un'ombra lega Youssef Zaghba al movimento radicale islamico dei Tabligh Eddawa. E all'Italia. Il jihadista "bolognese", autore degli attentati che hanno insanguinato Londra, è italiano perché figlio di Valeria Collina, connazionale convertita all'Islam. Ha il passaporto della Repubblica, con oneri ed onori connessi. Ma per lui il Belpaese sembra essere più un luogo di passaggio che una Patria. La sua vita si divide tra Londra e il Marocco. La Digos e l'Antiterrorismo stanno però cercando di ricostruire la rete dei contatti in Italia e hanno stilato una lista di 20 nomi, di cui 10 definiti "stretti".

Un mistero rimane il percorso di radicalizzazione di Youssef. Si scava sul soggiorno londinese e sui coinquilini della casa a Ripple Road, a Barking. Ma l'attenzione è rivolta anche al Marocco. Il jihadista 22enne, infatti, è nato a Fez ed è qui che, seguendo le orme del padre, compaiono i fili della tela che porta alla "setta" islamica. Commerciante di 55 anni, Mohammed Zaghba sposa Valeria Collina e porta la famiglia a vivere in Africa. Tutto sembra rose e fiori. Sembra: perché dopo qualche anno Mohammed, secondo La Repubblica, si avvicina ai Tabligh. Seguendo i dettami coranici sulla poligamia, vorrebbe sposare un'altra donna. Ma Valeria si rifiuta di condividere il marito e così i genitori del terrorista arrivano al divorzio.

Lei si trasferisce a Castello di Serravalle, a 35 chilometri da Bologna, e si porta dietro la figlia minore, Kauthar. Lui rimane a Fez insieme a Youssef. Ed è in questo periodo che forse il jihadista viene influenzato dall'appartenenza del padre alla setta dei Tabligh Eddawa. Quando il ragazzo mostra segnali di depressione post-divorzio, Mohammed lo invita a leggere e recitare il Corano a ripetizione. Come se fosse un palliativo. Niente di strano, per un adepto dei "missionari di Maometto".

Già, perché è proprio sulla lettura del testo sacro dell'islam e degli hadith del Profeta che si fonda l'anima di questo movimento pietistico islamico. Nata negli anni '20 in India dall'idea di Muhammad Ilyas Kandhalawi, la "setta" si diffonde in tutto il mondo fino ad arrivare anche in Italia. Non esistono registri né informazioni sulle adesioni, ma le statistiche parlano di circa 80milioni di seguaci in tutto il pianeta. Nel Vecchio Continente sono diffusi soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, dove presentarono un progetto per costruire la più grande moschea d'Europa. L'idea era di edificarla a Londra, nei sobborghi dove, guarda caso, il jihadista del London Bridge ha cercato fortuna e trovato la radicalizzazione.

Chi scrive ha vissuto con i Tabligh Eddawa per cinque giorni, seguendo notte e giorno una delle loro missioni di proselitismo (guarda il video). Eddawa" significa "parlare di Dio", "Tabligh" invece "andare a portare il messaggio". Battono in lungo e in largo le periferie delle città italiane per convertire i musulmani al "vero" islam e invitarli a "vivere come viveva Maometto". I loro principi sono semplici, ma rigidi: la preghiera, il ricordo continuo di Dio, lo studio, la generosità, la predicazione e la missione. Riconoscono il valore della poligamia, pensano che le donne occidentali siano tutte "schiave", vedono l'Occidente come una società decadente da curare con i dettami di Maometto e considerano il terrorismo un "complotto massonico". "Siamo noi i veri islamici e abbiamo già conquistato Roma", mi disse durante una lunga intervista l'imam Abdel Hamid.

Ci sono, ma non si sentono. Lavorano nell'ombra, diffondendo idee radicali islamiche. Ogni adepto deve provare a convicere amici, conoscenti e sconosciuti ad abbandonare la strada del peccato per tornare sul sentiero di Allah. Quando camminano per strada si riconoscono per il bianco abito lungo e la barba incolta. Seguono alla lettera le regole di comportamento del buon musulmano: mangiano come mangiava Maometto, dormono come dormiva il Profeta e vanno pure in bagno come faceva il messaggero di Allah. "Integrazione" per i Tabligh significa tenersi alla larga dai valori occidentali. Non assimilarli.

Non è un caso dunque se i Servizi segreti italiani e la Digos hanno aperto più di un fascicolo con il loro nome ben impresso sulla copertina. Un rapporto del 2005, redatto dal Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo (DSSA), li inserisce tra le sigle islamiche da controllare per affrontare adeguatamente il terrorismo: "Mostrano caratteri di segretezza affini a quelle delle sette", si legge nei dossier. E sono considerati "il primo passo verso il terrorismo". I Tabligh direttamente non hanno mai compiuto atti jihadisti. Ma i loro adepti sì. Molti, dopo aver incamerato il "vero islam" predicato nella setta, si sono uniti alle milizie del terrore. Come “Johnny il Talebano” (americano finito a combattere in Afghanistan) a Richard Reid (che tentò di farsi esplodere sul volo Parigi-Miami).

Oppure come l'imam Hafiz Muhammad Zulkifal, arrestato con l’accusa di aver raccolto fondi tra Bergamo e Brescia per finanziare terroristi di Al Qaeda: il procuratore lo ha definito un “uomo di spiccato spessore criminale votato alla propaganda radicale e alla ricerca di fedeli votati al martirio". E forse ora all'elenco dovremo aggiungere anche il nome di Youssef.

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