Scena del crimine

"Mai l'avrei pensato". Quegli agenti dietro rapine e omicidi

Per oltre sette anni, la Banda della Uno Bianca terrorizzò l'Emilia-Romagna e le Marche. I criminali erano quasi tutti poliziotti. L'uomo che disegnò i loro identikit: "Mai avrei pensato a un collega"

Roberto e Fabio Savi scortati dai carabinieri in tribunale
Roberto e Fabio Savi scortati dai carabinieri in tribunale

Per sette anni agirono indisturbati, seminando terrore e morte in Emilia-Romagna e Marche. Oltre cento le azioni criminali portate a termine, altrettanti i feriti e 23 le persone rimaste uccise. Poi i killer della Banda della Uno Bianca vennero individuati e fermati. Ma nessuno si aspettava che quei criminali senza scrupoli nel tempo libero lavorassero nei commissariati di Bologna, Rimini e Cesena. Tutti i membri della banda tranne uno infatti erano dei poliziotti. A guidarne le azioni erano due dei tre fratelli Savi, Roberto e Fabio, mentre gli altri componenti del gruppo vi orbitavano intorno erano Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

I criminali nascosti dietro una divisa

Nessuno si immaginava che dietro alla divisa da poliziotti potessero nascondere una doppia vita, fatta di rapine, agguati e omicidi. Difficile per chi indagava sospettare che un collega potesse essersi reso colpevole di crimini tanto atroci. Nemmeno il numero uno dei disegnatori di identikit, Giovanni Battista Rossi, che tratteggiò a matita il volto dei fratelli Savi, si rese conto di aver disegnato un collega: "Collega, guarda come gli assomigli", disse Rossi a un agente, dopo aver disegnato il volto di uno dei banditi. Ma la possibilità che quel collega fosse proprio il killer che stavano cercando non lo sfiorò nemmeno: "Mai avrei pensato una cosa del genere", ha rivelato a ilGiornale.it.

L'identikit disegnato da Rossi rappresentava Roberto Savi, assistente capo della polizia di Bologna, considerato il capo della banda. In Polizia dal 1976, Roberto aveva 33 anni quando iniziò con le rapine. Era l’addetto alla sala operativa, quella cioè che riceve le segnalazioni di allarme e smista le auto. Per quanto riguarda la vita privata, al momento dell’arresto, Roberto era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto un figlio, ed era andato a vivere con una ragazza nigeriana di 21 anni. Savi, come riporta l’Unità del 23 novembre 1994, venne "arrestato mentre stava prendendo servizio". In un garage gli agenti trovarono un vero e proprio arsenale: "Armi lunghe e corte, esplosivo, circa 230 milioni di lire in contanti".

Dopo l’arresto di Roberto, gli inquirenti iniziarono a cercare Fabio Savi. Il secondo fratello, 34 anni al momento del fermo, finì in manette pochi giorni dopo, intercettato in un Autogrill dell’autostrada Udine-Tarvisio, l’ultimo prima del confine con l’Austria. Fabio aveva provato a passare il concorso per entrare in polizia ma, non essendoci riuscito, lavorava in proprio e, dopo essere stato sposato e aver avuto un figlio, conobbe una donna romena di origine ungherese, Eva Mikula, con la quale viveva in Italia. Fu proprio la donna, fermata con lui all’Autogrill, a raccontare molti dettagli agli inquirenti. A casa di Fabio vennero trovate altre armi, polvere da sparo, baffi finti, parrucche e 80 milioni di lire in contanti.

Identikit killer Uno Bianca

Anche il terzo fratello, Alberto Savi, era un poliziotto come Roberto. Sposato, con un figlio. Era il più piccolo dei tre fratelli e, nel 1994 quando venne arrestato, aveva 29 anni. In Polizia dal 1983, era in servizio al commissariato di Rimini come agente delle volanti, dopo essere stato a Ferrara e all’aeroporto di Miramare. "Se è davvero lui il killer della Uno farebbe bene a spararsi un colpo in testa", avrebbe detto riferendosi al fratello Roberto, quando venne resa nota la notizia dell’arresto. Gli agenti lo fermarono alla stazione, mentre aspettava il treno per Roma, dove era diretto per discutere il suo trasferimento. "Anch’io ero nella banda - ammise dopo l’arresto, secondo quanto riportato nell’Unità del 27 novembre 1994 - È stato un errore di gioventù. Ho iniziato nel 1987, con una rapina ad un casello dell'autostrada".

Oltre ai tre fratelli Savi, parteciparono ai colpi tra Emilia-Romagna e Marche anche altri tre poliziotti: Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Il primo, 34 anni al momento dell’arresto, in Polizia dal 1982, lavorava insieme a Roberto Savi, alla sala operativa di Bologna, dopo essere stato a Milano e a Firenze. Al suo arresto si arrivò grazie a una videocassetta trovata nell’arsenale di Roberto. Marino Occhipinti, 29enne al tempo, faceva parte della sezione Narcotici, dopo aver lavorato sulle volanti insieme a Roberto Savi, venne arrestato a casa sua, nel suo giorno di riposo, mentre Luca Vallicelli, in Polizia dal 1986 e agente scelto a Cesena, venne fermato mentre usciva da un bar.

I numeri del terrore

Sette. È il numero degli anni di paura, sangue e morte che hanno avvolto Emilia-Romagna e Marche, martoriate dal 1987 al 1994. Ma a questo vanno aggiunti tutti gli altri numeri della banda. Primo fra tutti, l’uno, corrispondente al modello dell’automobile maggiormente usata durante i colpi. Il motivo di questa scelta lo ha spiegato Fabio Savi a Franca Leosini, nel programma Storie Maledette: "Era quella più diffusa". Anche Roberto fece riferimento all’auto, specificando che la Uno "era una macchina anonima. Rubavamo quel modello di auto per non essere riconosciuti". In realtà, la Uno non è l’unica automobile a essere stata guidata nei colpi: "Usavamo macchine di tutti i tipi", precisò Fabio.

Poi ci sono le cifre, da brividi, legate alle azioni criminali: 103 i colpi effettuati, secondo il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, di cui 91 tra rapine e tentate rapine, 102 i feriti e 23 le persone che hanno perso la vita a causa delle azioni del gruppo guidato dai fratelli Savi. Come precisato sul sito della Polizia penitenziaria, le rapine ebbero come obiettivi 22 banche, 22 caselli autostradali, 20 distributori di benzina, 15 supermercati (di cui 9 Coop), 9 uffici postali e una tabaccheria.

Identikit killer Banda della Uno Bianca

E poi ci sono i numeri che fanno capire la totale impotenza di chi si è trovato faccia a faccia con i banditi della Uno Bianca. Sono tutti quelli che corrispondono alle età delle vittime: 21 sono gli anni che avevano le due vittime più giovani, Mauro Mitilini e Andrea Moneta, i due carabinieri uccisi al quartiere Pilastro a Bologna, mentre 66 sono quelli di Pietro Capolungo, il più anziano ucciso dalla Banda della Uno Bianca. Nel mezzo ci sono i carabinieri 22enni Cataldo Stati e Umberto Erriu, il poliziotto 41enne Antonio Mosca colpito a Cesena, i militari assassinati al Pilastro, le guardie giurate uccise durante le rapine o le tentate rapine e i comuni cittadini, colpevoli di aver ripreso verbalmente i banditi o di aver cercato di annotare la targa dell’auto dei criminali.

Gli arresti e le condanne

Il primo a essere arrestato fu Roberto Savi. Le manette scattarono ai polsi del più grande dei tre fratelli la sera del 21 novembre 1994 mentre si trovava al lavoro, in questura a Bologna. Gli arresti di tutti i componenti della banda avvennero nel 1994.

savi uno bianca

Per la Banda della Uno Bianca non si è svolto un solo maxiprocesso, ma tre distinti processi a Bologna, Rimini e Pesaro. Nessuno quindi ha preso in considerazione l’intera catena di delitti. Fabio e Roberto Savi sono stati riconosciuti responsabili di quasi tutti i fatti di sangue attribuiti alla banda, mentre Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli sono stati considerati come membri associati, gregari, che hanno partecipato solamente ad alcuni colpi.

In particolare, secondo quanto ricorda Ursula Franco, Alberto Savi partecipò ad alcune rapine ai caselli autostradali, all’assalto a una Coop e a un ufficio postale e alla strage del Pilastro, mentre Marino Occhipinti prese parte a una rapina terminata in tragedia, con l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari. Pietro Gugliotta si unì alla banda per alcune rapine e l’assalto a uno degli uffici postali, mentre Luca Vallicelli partecipò ad una sola rapina incruenta.

Il processo in Corte d’Assise di Rimini si concluse il 6 marzo del 1996. Roberto, Fabio e Alberto Savi vennero condannati all'ergastolo e all'isolamento diurno. Tredici anni di reclusione, invece, per Pietro Gugliotta. Anche a Bologna, il 31 maggio 1997, i tre fratelli Savi vennero condannati all’ergastolo, insieme a Occhipinti, mentre Gugliotta a 18 anni e Vallicelli patteggiò a 3 anni e 8 mesi. Inoltre la Corte condannò il Ministero degli Interni a risarcire le parti civili.

Che fine hanno fatto i membri della banda?

Dopo le condanne, tutti i membri della banda finirono in carcere per scontare la loro pena. I tre fratelli Savi si trovano ancora in carcere. Roberto ha chiesto la grazia, ricevendo per tre volte un parere sfavorevole; Fabio aveva fatto richiesta, respinta, di usufruire del rito abbreviato a posteriori; Alberto, dopo 23 anni di carcere, ha iniziato a beneficiare di permessi premio. Nel 2008 è stato invece scarcerato Pietro Gugliotta, dopo 14 anni di reclusione, mente nel 2018 Marino Occhipinti è stato ritenuto "non socialmente pericoloso" e ha ottenuto la libertà. Luca Vallicelli è tornato libero dopo aver scontato la sua pena.

Ma quali furono i moventi che spinsero i banditi ad agire? "Io volevo pagare i debiti", dichiarò a Franca Leosini Fabio Savi. Anche secondo il sostituto procuratore Daniele Paci, "la motivazione principale era far quattrini", precisando però, in un’intervista a Pandora Rivista, che alcuni delitti "non hanno nulla a che fare con motivi di lucro".

Anche il pubblico ministero Walter Giovannini, durante il processo di Bologna, ha parlato dell’assenza del movente del denaro in alcuni delitti, definendo la vicenda "caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata", disse, ricordando "episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale".

Il monumento alle vittime della Banda della Uno Bianca

D’accordo con queste conclusioni anche la presidentessa dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, Rosanna Zecchi, che dichiarò: "Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione". Per questo, recentemente, i famigliari delle vittime sono tornati a chiedere la verità sull’intera vicenda, facendo luce su eventuali complici e sui mandanti. "Siamo sempre di più familiari delle vittime a chiedere la verità attraverso la riapertura completa delle indagini - hanno dichiarato i parenti di Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitili, come riportato da Ansa - non solo per la strage del Pilastro".

Un contributo in questo senso potrebbe arrivare dalla digitalizzazione degli atti sulla Banda della Uno Bianca, che era stata chiesta proprio dall'associazione.

Infine, ribadendo la richiesta di una "completa verità", i familiari delle vittime hanno annunciato che continueranno "a contrastare permessi e sconti di pena per chi ha terrorizzato un'area del nostro Paese con crimini efferati e apparentemente inspiegabili".

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