Compagno di banco, ci mancherai

C' è il primo amore, che non si scorda mai, ma anche il compagno di banco, beh, è difficile da dimenticare. "Il compagno di banco" è una figura a sé stante, nella mitologia scolastica e nell'album personale dei ricordi

Compagno di banco, ci mancherai

C'è il primo amore, che non si scorda mai, ma anche il compagno di banco, beh, è difficile da dimenticare. «Il compagno di banco» è una figura a sé stante, nella mitologia scolastica e nell'album personale dei ricordi. È quello, o quella, che ti rimane amico con il passare degli anni, delle felicità, delle delusioni, dei lavori, dei figli, dei dolori da condividere e delle emozioni (o delle partite di calcio, se si tratta di maschi) da analizzare ancora per ore, come si analizzavano per ore durante le giornate di scuola (vabbeh, dopo decine di anni si può confessare che non si stava attenti, tanto le insegnanti lo sanno, anche loro hanno avuto un compagno di banco). «Il compagno di banco» è un'espressione bellissima, solo a pronunciarla, o a pensarla, perché fa tornare subito indietro nel tempo, a quando andavi a scuola e sì, eri spensierato, in qualche modo e incredibilmente, a rifletterci ora, eppure lo eri, e il compagno di banco era come lo specchio di quella vita sospesa, la vita della scuola che qualche volta sarà una noia, o una fatica, ma è anche un'esperienza meravigliosa, di affetti, di amicizie, di storie, di costruzione dell'identità e di sé, e del sé che entra in relazione con il mondo, e la prima emanazione del mondo è, appunto, chi in classe ti siede vicino. Ora, però, vicino non si può più stare. Ciò che è vicino è proibito, perché porta con sé non più l'intimità, la condivisione che ti riempie e ti fa crescere, bensì il pericolo del contagio: «il compagno di banco» è un potenziale untore per te, come tu lo sei per lui, o per lei. In classe, se e quando si potrà tornare, bisognerà indossare la mascherina: come si fa a bisbigliare con la mascherina? Come si fa a chiacchierare di «quello là» che magari ti ha salutato, o scritto un messaggino, con un filtro sulla bocca? Come si fa a schierare la formazione perfetta, quella con cui la tua squadra avrebbe sicuramente vinto, coperti da quel tessuto che diventa tutt'uno con la faccia? E poi i banchi stessi non saranno più vicini, dovranno rispettare il metro, o forse anche di più, di distanza: come si fa a passarsi i bigliettini, le gomme, i regalini, le penne, o a leggere i libri insieme, come si faceva al liceo, quando, per alleggerire lo zaino, ci si metteva d'accordo il giorno prima su chi portava il volumone di storiografia, chi i testi di italiano, chi di matematica, chi studiava e chi copiava? Niente, non si può. Il concetto stesso di «vicino» è bandito, con tutta la fisicità che si trascina, con tutta la sua contaminazione di corpi e anime, di segreti e di giudizi (perché le ore di scuola sono piene di verità da nascondere, o da rivelare, e di valori da attribuire agli altri, o da farsi attribuire), di risate e di lacrime, a volte anche di risate fino alle lacrime, proprio di quelle che si fanno a scuola, quando la prof non dovrebbe sentirti, e così l'impresa di contenerti, mentre guardi il tuo compagno che esplode, è praticamente impossibile. Non vedi l'ora di andare a scuola, solo per stare con il tuo compagno di banco. Non vedi l'ora di tornare a casa, solo per potergli parlare al telefono, o per incontrarlo.

La scuola c'è perché c'è lui, e ciò che è dopo, e oltre la scuola, spesso succede con lui, o grazie a lui o, comunque, per raccontarlo a lui. Senza il compagno di banco sarà tutta un'altra scuola, ma forse, in quest'altra scuola, i nostri figli si inventeranno un modo per essere, di nuovo, vicini: perché senza il compagno di banco non si può stare...

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