Politica

Così i buonisti lavano il cervello ai bimbi a scuola

La crociata di Boldrini e Fedeli contro le fake news

Così i buonisti lavano il cervello ai bimbi a scuola

Ci mancava solo questa. Ci mancava solamente che la presidenta della Camera Laura Boldrini e la ministra Valeria Fedeli si mettessero in testa l'idea di fare una crociata nelle aule di scuola per insegnare ai malcapitati alunni cosa è giusto e cosa non lo è. Secondo loro. Ovviamente. Così è nato il decalogo che - secondo le due promotrici - dovrebbe aiutare i giovani virgulti a smascherare le notizie false.

Che la Boldrini avesse delle velleità pedagogiche lo avevamo già visto a Montecitorio, con la sua ossessione per la correzione al femminile di tutte le parole maschili e con il perpetuo tentativo di correggere tutte le idee che non avessero i colori del suo arcobaleno politicamente corretto. La Fedeli probabilmente vuole recuperare il tempo perduto e - avendo frequentato poco le aule in gioventù - coglie l'occasione. Ma la questione, ahinoi, è seria.

Combattere le fake news è giusto, ma farlo nel nome dell'ideologia è pericoloso. E farlo nelle scuole fa paura. Puzza di rieducazione e di regime. Anche perché, chi decide cosa è vero e cosa è falso, cosa si può dire e cosa non si può dire? La Boldrini? Quella degli immigrati risorse e dei profughi che sono i nuovi partigiani? Quella che vuole sbianchettare la scritta Dux dagli obelischi della Capitale? Ma per favore...

Inculcare nella testa dei bambini quello che - dati alla mano - non vuole la maggior parte dei cittadini adulti italiani è la nuova ossessione della sinistra. L'ultimo esempio è quello dello ius soli: insegnanti che fanno lo sciopero della fame per l'approvazione della legge, maestre che fotografano i bambini vicino ai loro compagni stranieri e le postano sui social, giornali e siti radical chic che vanno a intervistare i bambini delle elementari con domande del tipo: «Ma lo sai che il tuo vicino di banco non è italiano e non ha i tuoi diritti?» con zoomata compiaciuta sul broncio che si inarca sul volto del piccolo.

Siamo a un passo dall'inserimento del politicamente corretto tra le materie di studio. E abbiamo avuto modo di prendere le dimensioni di questa nouvelle vague pochi giorni fa, quando un sussidiario è finito alla gogna per queste parole: «Molti (migranti, ndr) vengono accolti in centri di assistenza per i profughi e sono clandestini». Cioè per aver detto la verità. Ma il problema è «clandestini». Parola che non si può dire ai bambini. In compenso l'Arcigay può spadroneggiare nelle scuole di Milano con le sue teorie pro gender e nello scorso fine settimana a Roma si è tenuta una tre giorni dal nome inquietante: «Festival della cultura critica dell'infanzia». Dove s'intende che la «cultura critica» i bambini non se la possono fare da soli, ma la devono subire, devono essere presi per mano e accompagnati verso il sol dell'avvenire del buonismo. E infatti i titoli dei seminari toccavano tutti i temi cari alla sinistra: «A che genere giochiamo? Esperienze di autocorrezione dei libri di testo», «Il mio nome è Amal una storia palestinese», «Un viaggio a fumetti tra storie migranti» e via dicendo.

Il politicamente corretto è una dittatura stomachevole e lo sapevamo. Ma cercare di fare politica nelle aule di scuola, utilizzando i bambini per portare avanti le proprie battaglie ideologiche, fa schifo. Giù le mani dai bambini. Lasciateli pensare e scoprire il mondo e la politica con la propria testa.

Senza i paraocchi delle ossessioni altrui.

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