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"È la fine", la decompressione fatale del Japan Airlines 123

I piloti del volo Japan Airlines 123 lottarono strenuamente, ma invano, per cercare di evitare lo schianto

Screen National Geographic
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Ogni agosto milioni di persone in Giappone celebrano la festa di Obon, un momento in cui le famiglie tornano alle loro dimore ancestrali per radunarsi in onore dei loro antenati. La festività, che dura tre giorni, è particolarmente sentita, ed è seconda per importanza nel calendario giapponese solo rispetto a quella del primo dell'anno.

Nel 1985 Obon cadeva intorno al 15 agosto, e nei giorni precedenti nella maggior parte del Giappone, come di consueto, si è assistito a un vero e proprio boom dei viaggi per le vacanze. Al fine di far fronte al vasto numero di viaggiatori, la compagnia di bandiera giapponese Japan Airlines (Jal) utilizzava aerei nati per voli a lungo raggio, come il Boeing 747, su voli nazionali molto brevi. In particolare aveva in linea una serie di 747SR (Short Range), concepiti appositamente dalla Boeing per le rotte nazionali della Jal. Una di queste andava dalla capitale, Tokyo, a Osaka, la seconda città più grande del Giappone: una tratta che vede un gran numero di passeggeri anche al di fuori delle festività nazionali. Il 12 agosto 1985 il volo Jal 123 era uno dei tanti della compagnia di bandiera nipponica in servizio su quella tratta, operata tutto l'anno utilizzando proprio il 747SR, che rispetto al velivolo originale è leggermente più corto e con carrello e cellula irrobustiti per poter resistere meglio all'usura dei numerosi voli interni della Jal.

Il 747 di quel tardo pomeriggio di agosto era quasi al completo: dei 520 posti dell'aereo ne erano stati occupati 509, che oltre ai tre piloti e alle dodici assistenti di volo portavano il totale delle persone a bordo a 524. Al comando del velivolo c'era il capitano Masami Takahama, 49 anni, un ufficiale istruttore esperto con 12400 ore di volo al suo attivo. Quel giorno però Takahama si era seduto al posto del secondo pilota, perché stava assistendo il primo ufficiale, Yutaka Sasaki, 39 anni, nel suo iter per diventare lui stesso capitano, pertanto Sasaki era seduto in quello che normalmente sarebbe il posto di comando principale. Infine, a completare l'equipaggio della cabina di pilotaggio, c'era l'ingegnere di volo di 46 anni Hiroshi Fukuda.

Il decollo e poi un boato

Con il primo ufficiale Sasaki ai comandi, il volo 123 decollò dall'aeroporto Haneda di Tokyo alle 18.12 ora locale per il suo viaggio di 54 minuti verso Osaka. Il breve volo richiedeva un'altitudine di crociera di soli 24mila piedi (7300 metri circa), ben al di sotto dei livelli a cui normalmente volano i Boeing 747, ma abbastanza alta da creare una grande differenza di pressione tra l'interno e l'esterno dell'aereo. In salita costante dopo il decollo, il velivolo si diresse verso Sud-Ovest sorvolando la baia di Sagami, per poi virare verso Ovest sull'isola di Oshima.

Quando il volo 123 era in prossimità della sua quota di crociera, circa 12 minuti dopo il decollo, alle 18.24,34 mentre stava per livellarsi in avvicinamento alla costa orientale della penisole di Izu, un sordo boato scosse la cabina del 747. Un forte vento strappò via tutto ciò che non era legato, spingendo carta, tovaglioli e riviste verso la coda, mentre la pressione interna ed esterna si equalizzava violentemente. Vicino alla cucina posteriore, i pannelli del soffitto si staccarono dai loro supporti scomparendo all'indietro e una nebbia bianca riempì improvvisamente la cabina, mentre il vapore acqueo nell'aria si condensava istantaneamente.

Il panico si diffuse istantaneamente tra i passeggeri, e le maschere di ossigeno scesero automaticamente dai loro vani al di sopra dei posti a sedere. Il Boeing aveva subito, per qualche ragione, una rapida decompressione, sicuramente distruttiva. In cabina, l'avvisatore acustico legato alla pressione cominciò a suonare e nel frattempo una spia color ambra si accese avvisando l'ingegnere di volo che vi era una perdita nel circuito idraulico. Il comandante Takahama ordinò di squawkare 7700 sul transponder, comunicando così al controllo del traffico aereo “emergenza generale”, e poi disse a Sasaki di effettuare una virata a destra per poter ritornare all'aeroporto di Tokyo.

“L'ho fatto”, rispose il secondo ufficiale, ma volantino e pedaliera erano come morti, non rispondendo ai comandi. In cabina non c'era modo di capire cosa esattamente fosse successo, ma i tre membri dell'equipaggio si trovarono con un velivolo privo di tutti e quattro i circuiti idraulici, e quindi praticamente ingovernabile.

Una lotta impari

“Tokyo... JAL 123. Richiesta di immed... e... problemi. Richiesta di ritorno a Haneda. Discesa e mantenere due due zero. Chiudo”. Il comandante Takahama chiamò il controllo del traffico aereo della capitale giapponese, che ancora non aveva idea di cosa stesse succedendo a bordo del 747, limitandosi a dare la precedenza al volo in emergenza. “Roger, approvato come richiesto”, comunicò la torre. Takahama richiese un “vettore” (una direzione di rotta) per Oshima, avvisando che l'impianto idraulico era fuori uso. “Ma ora non controllo”, avvisò ancora il comandante. Con la pressione idraulica in esaurimento, il primo ufficiale Sasaki si stava trovando sempre più in difficoltà a mantenere l'angolo di inclinazione corretto durante la virata verso l'aeroporto. “Non virare così tanto, è manuale! - disse il capitano Takahama - Riportalo indietro!”.

“Non torna indietro!”, esclamò Sasaki. “Idro tutto out?”, chiese ancora Takahama. “Sì!”, gli rispose Fukuda. I controllori del traffico aereo videro che il volo 123 era arrivato solo a metà della virata di 180 gradi verso Haneda, e ora stava volando verso Nord. Il controllore chiese all'equipaggio la natura della loro emergenza, ma non ci fu risposta.

Nella concitazione del momento, i tre nella cabina di pilotaggio si erano dimenticati di indossare le maschere di ossigeno, e lentamente stavano andando in ipossia. La perdita di pressione idraulica ai comandi fece entrare l'aereo in un “ciclo fugoide”, ovvero un volo incontrollato in cui un aeroplano in discesa guadagna velocità fino a quando non inizia a rialzarsi da solo, entrando in una cabrata che a sua volta gli fa perdere velocità fino a quando non sbanda ed entra di nuovo in discesa. Nel caso del 747 della Jal, l'aereo entrò in un volo incontrollato di questo tipo con un periodo di 90 secondi e un'ampiezza variabile da 900 a 1500 metri, con un angolo di beccheggio compreso tra 15 gradi con muso in alto e cinque gradi con muso in basso.

Contemporaneamente si innescò una componente di “rollio olandese” in cima al ciclo fugoide, ovvero si determinò una rotazione contemporanea lungo gli assi di rollio, beccheggio e imbardata. Il fugoide, combinato col rollio olandese, fece volare l'aereo come una nave in un mare in tempesta, alzandosi e abbassandosi, rotolando e precipitando, oscillando avanti e indietro mentre barcollava in avanti, instabile su ogni asse.

L'equipaggio cercò disperatamente di smorzare questi movimenti, ma con tutto il fluido idraulico ormai perso, i loro controlli erano completamente inefficaci. Allora si fece ricorso all'unica cosa che si poteva ancora controllare: i motori, variandone la spinta per cercare, almeno di recuperare una direzione di rotta.

Un compito arduo: è possibile far virare l'aereo utilizzando la spinta asimmetrica sulle manette, ovvero accelerando i motori da un lato e decelerando i motori dall'altro, ed è anche teoricamente possibile moderare il ciclo fugoide accelerando quando l'aereo inizia a tuffarsi e decelerando quando l'aereo inizia a salire. Fare entrambe le cose, però, era impossibile, perché i cambiamenti di potenza del motore, soprattutto asimmetrici, tendevano a esacerbare il rollio olandese, e se la potenza del motore fosse mantenuta costante per smorzare il rollio olandese, questo avrebbe esacerbato il movimento fugoide.

Il problema successivo era quello della velocità: abbassare i flap non bastava e per ridurla senza intervenire troppo sulle manette – quindi compromettendo l'assetto – vennero sganciati i blocchi del carrello che scese per gravità.

I piloti, dopo 10 minuti dall'inizio dell'emergenza, si misero le maschere ma alle 18.41 persero comunque il controllo del 747 a un'altitudine di 6mila metri. L'aereo effettuò una virata completa, in discesa, a 360 gradi di 2,5 miglia di raggio sopra la città di Otsuki durata tre lunghissimi minuti, poi, in qualche modo, il comandante e il secondo riuscirono a livellare il velivolo in direzione Est.

Alle 18.47 si presentò un altro problema. La perdita di quota aveva portato l'aereo pericolosamente a livello delle montagne: davanti al muso del 747 si parò quello che sembrava un ostacolo insormontabile. Takahama ordinò: “Vira a destra! Montagna! Prendi il controllo, vira a destra! Colpiremo una montagna! Massima potenza!”, e applicando tutta manetta il velivolo, entrato ancora una volta in un ciclo fugoide, guadagnò quota quel tanto che bastò a sollevarlo al di sopra delle montagne, raggiungendo i 3350 metri di altitudine.

Lo schianto

L'aereo nella cabrata perse così tanta velocità che lo shaker del volantino si attivò, avvertendo di uno stallo imminente. “Oh no!”, gridò il comandante, “Stallo! Potenza massima, potenza massima!”. Ne seguì una battaglia disperata per impedire all'aereo di scendere sulle montagne.

Takahama fece del suo meglio per cercare di mantenere il 747 in volo, agendo sulle manette e sui flap insieme a Sasaki mentre l'aereo saliva ripetutamente, si fermava, si tuffava e saliva di nuovo. Ma i motori di un aereo civile non rispondono istantaneamente ai comandi e fu impossibile coordinare le variazioni di spinta in modo sufficientemente preciso da riprendere il controllo.

I piloti provarono ripetutamente a estendere e ritrarre i flap per aumentare e diminuire la resistenza, e quindi la velocità, ma i flap risposero anche più lentamente dei motori. Per diversi minuti la cabina di pilotaggio si riempì delle grida di Takahama e Sasaki. “Muso in su!”, “Muso in giù!”, “Solleva i flap!”, “Flap giù!”, “Potenza!”, ma fu tutto inutile.

Il 747 si trovava ora a circa 102 chilometri a Nord-Ovest di Tokyo, nell'entroterra giapponese, avendo seguito una rotta casuale dovuta all'impossibilità di controllarne la traiettoria. Ore 18.56. L'allarme del Gpws (Ground Proximty Warning System) risuonò in cabina insieme a una voce registrata "Pull up! Pull up! Pull up!" (Tira su!). La scatola nera registrò le ultime parole del comandate Takahama: “È la fine...”.

Il 747 del volo Jal 123 precipitò al suolo. L'aereo dapprima sfiorò la cresta di una montagna, tagliandone gli alberi, poi colpì la cima di un'altra a una quota di 1610 metri e a circa mezzo chilometro di distanza dalla prima. Infine, dopo aver volato per altri 570 metri, si schiantò a 1565 metri di altezza, poco sotto una terza cresta, posta circa 2,5 chilometri a Nord-Nord-Ovest del monte Mikuni, situato al confine tra le prefetture di Nagano e Saitama.

Rottami fiammeggianti scavarono le foreste lungo il fianco della montagna, sparpagliandosi in forre e burroni. Al calar delle tenebre cominciò a piovere, e gli elicotteri della Jasdf (Japan Air Self Defence Force), non potendo atterrare a causa della ripidità delle pendici e della presenza degli alberi, circuitarono sul luogo del disastro senza riuscire a scorgere segni di vita. Per tutta la notte squadre di soccorso formate da vigili del fuoco e paracadutisti si arrampicarono lungo la montagna per cercare di raggiungere il luogo dello schianto e cercare superstiti.

Dopo 14 ore, proprio un vigile del fuoco, mentre stava ispezionando un burrone, si accorse di un movimento tra i rottami e con sua grande sorpresa trovò la hostess fuori servizio Yumi Ochiai ancora viva. Poco più in là trovò altre tre superstiti: Hiroko Yoshizaki, sua figlia di 8 anni Mikiko e la dodicenne Keiko Kawakami. Quattro donne che erano sedute, l'una di fianco all'altra, nelle fila 56 del 747. Intorno a loro giacevano i poveri resti di altre 520 persone, compresi quelli dei 15 membri dell'equipaggio. Uno degli incidenti più sanguinosi della storia dell'aviazione civile, secondo solo a quello di Tenerife, e il peggiore, per numero di morti, che ha coinvolto un singolo velivolo.

Cos'era successo?

La commissione di inchiesta ha stabilito che, durante la salita a quota di crociera, il differenziale di pressione tra l'interno della cabina e l'esterno aumentò al punto che la paratia di pressione di poppa, già compromessa, cedette in modo catastrofico. In pochi millisecondi l'aria pressurizzata della cabina esplose attraverso lo spazio vuoto con una forza tremenda, la paratia si ruppe in diversi pezzi quando un muro d'aria si precipitò all'indietro nella sezione di coda non pressurizzata, che non era progettata per resistere a un tale picco di pressione.

Pochi istanti dopo il cedimento, l'onda di pressione fece esplodere un'enorme sezione della coda dell'aereo, compreso il cono di coda, la maggior parte dello stabilizzatore verticale compreso il timone, l'unità di alimentazione ausiliaria (Apu) e molti altri componenti strutturali critici e sistemi di controllo. Il 747 stava quindi volando, oltre che senza impianto idraulico, senza deriva di coda, cosa che spiega il suo ingresso in rollio olandese durante il volo incontrollato.

La paratia aveva improvvisamente ceduto non per difetto di fabbrica, ma per errore umano. Il 747, infatti, il 2 giugno 1978, mentre stava atterrando a Osaka come volo 115 della Jal, colpì la pista con la coda quando il pilota richiamò troppo bruscamente durante l'atterraggio, causando gravi danni alla fusoliera, alla paratia a pressione di poppa, al sistema di controllo dello stabilizzatore orizzontale, alle porte e al gruppo dell'Apu, al cono di coda e a diversi elementi strutturali, tanto che il velivolo dovette essere riparato da tecnici della Boeing giunti dagli Stati Uniti.

La riparazione della paratia a pressione venne effettuata in modo errato, perché venne posizionata una fila sola di rivetti sul suo rivestimento quando avrebbero dovuto essercene due, riducendone così la resistenza del 70%.

Pertanto, a ogni ciclo di pressurizzazione, si trovò a dover subire uno stress per il quale non era progettato determinando l'insorgere di piccole cricche da fatica che, nel corso del tempo, hanno causato l'improvviso e catastrofico cedimento strutturale.

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