«Ho incontrato Mario Draghi, mi ha fatto un'ottima impressione». Detto così, senza ironia né senso del ridicolo, dall'uomo che vendeva Caffè Borghetti all'uomo che ha governato la Bce e salvato l'Europa.
Il candore con cui Luigi Di Maio riesce a sembrare uno sventurato inadatto ad ogni piè sospinto è uno di quei talenti impossibili da imparare. Con gli anni e gli incarichi di governo, però, ha innalzato la gaffe ad arte e - dopo il ritiro del suo sfidante Toninelli - è ormai cintura nera incontrastata di scivoloni. Che un po' lo mettono alla berlina, ma un po' sono indicativi della deprimente filosofia che fa da brodo di coltura e incultura di una certa parte del grillismo. Quell'«uno vale uno» sordocieco di fronte ai meriti, alla competenza e ai limiti oggettivi.
Perché questo significa l'«ottima impressione»: o Di Maio davvero si aspettava di trovarsi di fronte un babbeo teleguidato dai poteri forti come da narrazione 5 Stelle, oppure è talmente conscio del gap di statura fra loro da bluffare, con un'esibizione di parità immaginaria. Di Maio è stato paracadutato alla guida del Movimento e del Paese senza particolari qualità. Draghi ha segnato la storia economica del mondo nel più feroce decennio di crisi. Il loro incontro è la fotografia di quanto la selezione della classe dirigente sia caduta in basso. Tanto vale portare tutto all'eccesso, come negli sketch di cabaret.
Di Maio ben impressionato è l'allenatore della Spal che apprezza il Brasile del '70, il tassista che borbotta «questo Hamilton non guida male, ma saprà parcheggiare in centro?», il maestro di italiano delle elementari che ha letto Dostoevskij e per carità, la grammatica è corretta, ma sulla sintassi insomma...
Non resta che accomodarsi sul divano e aspettare il prossimo episodio. Al Papa potrebbe dire che sembra proprio una brava persona, o alla Regina Elisabetta che non si aspettava una signora così distinta. Speriamo solo di non sentire mai cosa diranno loro di lui.
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