Cronache

Quei verbali dimenticati che svelano chi erano Falcone e Borsellino

Dagli archivi del Tribunale di Palermo, riemergono documenti di una storia poco nota, in cui Falcone e Borsellino si batterono per rimediare a una terribile ingiustizia figlia di un oscuro depistaggio

Quei verbali dimenticati che svelano chi erano Falcone e Borsellino

Sono passati 30 anni dagli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E non c’è stato anniversario della loro uccisione scevro da polemiche più o meno sensate per i tanti siparietti che di volta in volta vengono messi in piedi più per permettere a qualcuno di fare la propria sfilata sull’altare mediatico che non per coltivare veramente il ricordo di due magistrati che hanno combattuto in prima linea e che sono morti per questo. Ma al di là delle polemiche, un altro rischio concreto a tre decenni di distanza è quello di cristallizzare le due figure, di perdere di vista il contesto in cui hanno operato, di concentrarsi solamente sulle loro tragiche dipartite, tralasciando quello che era il loro lavoro quotidiano, anche quello meno conosciuto, quello meno esaltato dagli organi di stampa.

È stato questo il motore di una lodevole attività della Commissione parlamentare antimafia, che negli ultimi mesi, proprio in vista delle celebrazioni del trentennale dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, ha rispolverato gli archivi del Tribunale di Palermo, dov’è conservata una parte cospicua della storia d’Italia. Nell’ambito di un lavoro di ricerca affidato a un team di consulenti, impegnato in un’importante attività che riguarda la strage di Alcamo Marina, tragico evento del 1976 ultimamente tornato di attualità – è stata recuperata della documentazione sepolta sotto quintali di carte.

Una storia a margine della narrazione ormai patinata che si fa del lavoro dei due magistrati uccisi, ma che invece, a tanti anni di distanza, mostra non soltanto il loro piglio di investigatori di razza, ma soprattutto la loro sensibilità. Oggi si parlerebbe di garantismo, termine fin troppo abusato e dal significato spesso fluido. All’epoca si trattava semplicemente di buon senso e di un granitico sentimento di giustizia al di là dei compromessi.

Il fatto risale al 20 agosto 1977: a Ficuzza, frazione di Corleone, viene ucciso a colpi di pistola il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Nell’agguato viene colpito a morte anche il professore Filippo Costa, che con Russo stava realizzando un libro.

Oggi è acclarata la responsabilità di cosa nostra, che in quel momento era a un crocevia della sua storia, con il passaggio da un’attività prevalentemente dedita ai sequestri di persona verso una più pervasiva d’infiltrazione nel mondo degli appalti. Russo stava indagando proprio su questo filone e per tale ragione ne venne decretata la morte. Una responsabilità acclarata solamente dopo vent’anni dai fatti, il 28 ottobre 1997, a seguito delle dichiarazioni convergenti di alcuni collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta e Nino Calderone. Dichiarazioni che spinsero la Corte d’Assise di Appello di Palermo a rimediare a un errore giudiziario che – in controluce – ricorda quello legato al depistaggio sulle indagini per l’attentato di via D’Amelio.

Anche in questo caso, più che di errore giudiziario si dovrebbe parlare di depistaggio, ma gli elementi per delinearne le responsabilità sono ancora pochi e – da quanto ne sappiamo – il gruppo di lavoro della Commissione parlamentare antimafia ci sta lavorando. Per l’omicidio Russo vennero infatti condannati tre innocenti, che passarono dietro le sbarre circa 17 anni: Rosario Mulè, Salvatore Bonello e Casimiro Russo. Arrestato dai carabinieri e costretto a dichiarare il falso a suon di botte, fu Casimiro Russo a indicare in Rosario Mulè l’esecutore materiale del delitto. A nulla valsero poi le ritrattazioni. Il giudice che all’epoca si occupò del caso – un giovane Giuseppe Pignatone, oggi presidente del Tribunale dello Stato Vaticano – non ritenne utile approfondire la faccenda nonostante i molti punti oscuri e vergò una durissima sentenza istruttoria, prodromica alla sentenza di ergastolo per i tre malcapitati.

Questo nonostante anche l’accurato lavoro d’inchiesta di un giornalista come Mario Francese, che per due anni si occupò della vicenda, individuando – come la Corte d’Assise di Palermo vent’anni dopo – la mano di cosa nostra dietro l’omicidio. La stessa mano che pose fine alla sua esistenza il 26 gennaio 1979.

Tra le carte rispolverate da Nicola Biondo per il gruppo di lavoro sulla strage di Alcamo Marina, molto importanti sono tre verbali d’interrogatorio che dimostrano come in tempi non sospetti Paolo Borsellino prima e Giovanni Falcone dopo avessero cercato di far riaprire il caso, dimostrando come in carcere fossero rinchiusi degli innocenti. Uno sforzo apparentemente vano e di cui non ebbero tempo di apprezzare i risultati.

Il primo verbale è del 5 dicembre 1984: Borsellino, insieme al collega Leonardo Guarnotta, incontra nel carcere romano di Rebibbia Rosario Mulè, che ricostruisce la genesi dei rapporti tra lui e gli altri due incarcerati per lo stesso delitto. Ne emerge un quadro di miseria atavica, fatta di furti di bestiame, inganni e sotterfugi per sbarcare il lunario, ma con nulla a che vedere con la mafia. Un quadro confermato pochi giorni dopo, il 20 dicembre, di fronte al solo Borsellino, da Casimiro Russo, fatto portare dal magistrato nei suoi uffici presso il palazzo di Giustizia a Palermo. Interrogato, l’uomo conferma le dichiarazioni rese il precedente 9 settembre, a riprova di un’attività d’indagine intensa e accurata, e sostanzialmente dice di essere stato indotto alla confessione dell’omicidio del carabiniere e del professore “dalle gravi percosse subite dai carabinieri”.

Quattro anni dopo, il 25 marzo 1988, Casimiro Russo compare di fronte a Giovanni Falcone, impegnato con il collega in questa complicata indagine fuori dal clamore mediatico, fonte di sicuro imbarazzo per chi aveva puntato a una conclusione delle indagini per quell’omicidio veloce, facile e priva di controindicazioni (come avrebbe comportato il puntare dritti verso l’unica pista concreta: quella di cosa nostra).

Il Russo chiede a Falcone come sia possibile che lui e le altre due persone che per sua responsabilità sono in galera non siano ancora state rilasciate, dal momento che tre collaboratori di Giustizia (Buscetta, Calderone e Di Cristina) – come ha avuto modo di apprendere dai giornali – “hanno fornito elementi sicuri circa gli ispiratori dell’omicidio del colonnello Russo”. In questa occasione, il detenuto non solo conferma la ricostruzione dei suoi rapporti con gli altri due condannati fatta da Mulè di fronte a Borsellino, ma aggiunge anche un particolare inquietante: “[...] quando sono stato condotto nel carcere dell’Ucciardone, per essere interrogato dal giudice Borsellino, mentre mi stavo recando a colloquio, mi incontrai con un gruppo di detenuti che si stavano recando alla doccia. Uno di essi, che io non conosco, si staccò dal gruppo e, chiamandomi per nome (Casimiro), mi invitò ad accollarmi l’omicidio del colonnello Russo, in modo da poter buttare nella merda Tommaso Buscetta”.

Segno tangibile, questo, che l’omicidio del tenente colonnello dei carabinieri doveva restare attribuito a tre pastori e non a spietati killer mafiosi come Leoluca Bagarella, che nel 1997 venne indicato come esecutore materiale di questo duplice omicidio (fu sempre lui ad ammazzare anche il giornalista Mario Francese).

Antonio Balsamo, presidente del Tribunale di Palermo, già presidente nel corso del processo Capaci Bis, così commenta l’attività che ha riportato a nuova luce questa vicenda: “Il recupero, che oggi si realizza, di una parte importante dell’attività del pool antimafia, è [...] un forte stimolo a sperimentare nuove forme di sinergia tra il mondo della giustizia e le Commissioni Parlamentari di inchiesta, in vista della costruzione di un modello di giustizia riparativa imperniato sulla tutela del diritto alla verità che spetta alle vittime individuali e collettive dei tanti gravissimi episodi criminosi che sono tuttora avvolti da troppe ombre”.

Riferendosi a questa attività svolta negli anni Ottanta da Borsellino e Falcone, Biondo parla di loro come di un’ “anomalia nel panorama della magistratura italiana” e aggiunge: “Il caso dell'omicidio Russo racconta non solo della scalata dei Corleonesi ma è anche la storia di una grande ingiustizia, ciò che di più spaventoso possa succedere in uno stato di diritto: innocenti costretti con violenza a confessare un delitto mai commesso, colpevoli in libertà, indagini chiuse, un delitto perfetto. Che quello fosse un inganno ne erano fermamente convinti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che per anni provarono a far riaprire le indagini sull'omicidio dell'ufficiale dei Carabinieri. Non credevano alla versione ufficiale con i bolli della Cassazione”.

Una versione, come già detto, smentita e ribaltata solamente dopo 20 anni.

Un impegno, quello dei due magistrati, rivolto sempre e comunque verso la tutela della giustizia senza però perdere quell’umana pietà che li ha sempre caratterizzati nel loro lavoro.

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