Politica

L'unico errore di Parisi: vergognarsi dei partiti

Il cabdidato azzurro a Milano impeccabile al primo turno ma poi non ha intercettato il vento anti Renzi

L'unico errore di Parisi: vergognarsi dei partiti

A leggere in controluce i risultati del voto di domenica, magari coniugandoli con quelli del referendum sulle trivelle, non bisogna essere profeti per dire che Matteo Renzi probabilmente perderà il referendum del prossimo ottobre. E forse lo scarto tra No e Sì sarà ancora maggiore di quanto i sondaggi non segnalino sin d'ora: nel Paese si è formato un «blocco» contro l'attuale equilibrio di governo che sfiora il 70% dell'elettorato (Roma docet). La parabola dell'astro del premier, infatti, è in fase discendente. Si avvia al tramonto. O meglio, Renzi non sparirà - da noi non sparisce mai nessuno, basta guardare a come D'Alema, Bersani, Letta e Prodi stanno regolando i conti con il «rottamatore» -, ma resterà una stella come tante altre nel firmamento della politica italiana. Dovrà abbandonare l'ambizione di essere il Sole intorno al quale orbitano tutti gli altri pianeti.

Il nostro personaggio, infatti, è di fronte a un bivio: o persevererà nella sua scommessa, insisterà nel suo bluff seguendo l'istinto del pokerista incallito, giocandosi il tutto per tutto sul referendum sulle riforme e assumendosi la responsabilità di portare se stesso e il Pd alla catastrofe; oppure tenterà di individuare una via d'uscita, modificando l'Italicum, in sintesi rimangiandosi il premio di lista per quello di coalizione. Una scelta del genere, però, per Renzi si trasformerebbe in una sorta di abiura del «renzismo», determinerebbe, nei fatti, la rinuncia al progetto del «partito della Nazione». Inoltre metterebbe il premier-segretario nella grinfie della sua minoranza interna che, a quel punto, o detterebbe le sue condizioni all'interno del partito, chiedendogli prima di lasciare la guida del Pd e un domani - ci si può scommettere - anche quella del governo; o, in alternativa, Bersani, D'Alema e soci di fronte alle resistenze dell'ex-sindaco di Firenze, potrebbero anche scegliere la strada della «scissione», facendo valere le loro ragioni nell'ambito di una coalizione di cui il Pd renziano, con le modifiche all'Italicum, non potrebbe fare a meno.

Insomma, il Renzi che conosciamo, nei fatti, è già archiviato. O accetterà di essere normalizzato o, ad ottobre, correrà il serio pericolo di essere, appunto, «rottamato». È fatale: lo scenario che esce fuori dalle amministrative per il Pd è spietato: fuori dal ballottaggio a Napoli; più che doppiato dai grillini a Roma; sconfitto a Torino; si salva a Bologna solo perché il sindaco uscente, Virginio Merola, escogita una sorta di giuramento anti-renziano, preannunciando il suo No al referendum. Di contro i grillini spopolano e il centrodestra, al netto dei suoi errori, si assicura dieci città capoluogo.

A Renzi non resta che consolarsi con Milano. Ma, per paradosso, proprio questa vittoria conferma il tramonto del renzismo. Mesi fa, secondo i sondaggi, Sala aveva un vantaggio di dieci punti su Parisi. Ha vinto alla fine con uno scarto di tre punti, ma con il centrodestra che ha fatto man bassa dei municipi milanesi. E, soprattutto, Sala - un gaffeur a livello dell'ex-sindaco di Roma, Ignazio Marino - si è imposto per alcuni errori del suo avversario.

A scanso di equivoci: Parisi è stato impeccabile al primo turno. È riuscito in un'impresa ardua. Nel secondo, però, non ha capito fino in fondo il «mood» del Paese, cioè la spinta anti-renziana; e, contemporaneamente, ha trascurato le regole di comportamento necessarie per vincere un'elezione a doppio-turno, che impongono di rivolgersi al polo, o ai poli, rimasti esclusi dal ballottaggio. Mentre le candidate grilline, la Raggi e l'Appendino - sia nell'immagine, sia nel linguaggio -, si sono sforzate di dialogare con l'elettorato moderato e, appunto, Merola ha fatto l'occhiolino alla sinistra sul referendum, Parisi è rimasto fermo. Non ha lanciato nessun segnale al 10% del Movimento 5 Stelle a Milano, né ha provato a mettere in imbarazzo la sinistra estrema, magari schierandosi per il No al referendum, o annunciando una giunta innovativa per il Comune di Milano. Ha puntato tutto sulla sua figura di «manager», di tecnico.

Una «fotocopia», sia pure con maggior appeal, di Sala. Ma alla fine una «fotocopia», anche se può apparire più efficace dell'originale, è pur sempre una fotocopia. Persino Sala si è spogliato dell'ingombrante ruolo di candidato renziano e ha fatto di tutto per ricompattare la sinistra. Parisi, invece, si è mosso come se la battaglia di Milano facesse storia a sé rispetto al resto del Paese. Condizionato da quei pezzi del centrodestra che lo hanno appoggiat, ma sono contemporaneamente anche nella maggioranza di governo di Renzi: pezzi con grandi incarichi, ma pochi voti (a Roma la lista del ministro della Sanità Lorenzin ha preso meno di Casa Pound).

Sarà stato per un atto di devozione sull'altare della coerenza o per un peccato di arroganza, Parisi non ha voluto mettere le vele al vento anti-renziano che soffia nel Paese. Un errore, perché nei ballottaggi i voti degli esclusi non te li offre nessuno, te li devi conquistare. Per cui Renzi ha poco da esultare: Milano più che una vittoria del suo Pd è un'occasione persa per il centrodestra. Una chance mancata che può trasformarsi, però, in un insegnamento: il centrodestra se vuole essere competitivo o vincere non può affidarsi né ad un nuovo tecnico similMonti, né a un moderato algido come Sarkozy, né ad un populista becero come la Le Pen. Ha bisogno di una leadership moderata con vene di populismo che tenga insieme le sue due anime: quella moderata e quella populista.

La stessa formula che ha permesso al Cav di dominare per venti anni la scena politica del Paese.

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