C aro direttore, è con un profondo disagio, unito a un'ancora più profonda tristezza, che scrivo agli amici del Giornale, e lo faccio perché sono amici, persone leali, che hanno sempre accettato e apprezzato le opinioni di uno come me, che non può essere in linea con nessuna linea.
Ho letto e sentito, tra ieri e oggi, veramente di tutto. Dal trionfalismo bipartisan dei politici alle reprimende contro intellettuali e scrittori che firmarono anni fa un appello in favore di Battisti fino alle autogiustificazioni di qualcuno. La mia fatica, oggi, è quella di trovare qualcosa di umano in questi cori dissonanti. Ok, Battisti pagherà per i suoi misfatti. Ok, il mestiere dell'intellettuale è finito, e questo teatrino ne è la conferma. Intellettuali si sono mobilitati in difesa di questo scrittore che forse bisognerebbe cominciare a leggere per provare a capire quantomeno cosa l'ha spinto a scrivere, se la necessità di elaborare un passato (...)
(...) atroce o un'ultima istanza di autogiustificazione.
Il racconto che ha rivestito come una corazza la figura di quest'uomo lo renderebbe odioso a chiunque: circondato da amici intelligenti e facoltosi a Parigi, eccolo in Brasile, con quel sorrisetto strafottente, alla faccia dei suoi quattro cadaveri e del dolore e delle infinite difficoltà di chi è rimasto a piangerli. Ma, se tutto questo è vero, la mia domanda è molto semplice: di cosa dobbiamo essere contenti? Crediamo davvero che il mondo sia migliorato, adesso che Battisti torna nelle patrie galere? E, soprattutto: in cosa siamo migliorati noi?
La vita è terribile per tutti, e non per i dolori che commina, o per i guai che ci riserva, ma perché ci indurisce dentro. La cosiddetta voce della coscienza ha bisogno di essere ravvivata tutti i giorni, altrimenti affievolisce fino al giorno in cui tace del tutto. Possiamo passare i giorni a fare proclami di giustizia, possiamo andare a messa tutti i giorni, ma tutto questo non è sufficiente.
Le azioni del passato si trasformano, piano piano, in azioni compiute da qualcun altro, e che perciò in un modo o nell'altro non ci riguardano: possiamo andare avanti tranquilli. E non è necessario avere ucciso quattro persone, perché tanti di noi fanno lo stesso con la vita che hanno per le mani: schiavizzando i propri figli, ostentando cinismo verso i propri dipendenti, vivendo la propria funzione di educatori nella più totale indifferenza nei riguardi di ciò che per loro è bene e per ciò che non lo è.
Tutti noi rischiamo, giorno per giorno, di diventare dei piccoli mostri, capaci di piccole o grandi nefandezze senza nemmeno accorgercene. Nessuno ci può corrompere se, in qualche modo, non siamo già corrotti. E la corruzione, ben prima del denaro, è questo muro che alziamo tra noi e la nostra (cosiddetta) coscienza.
Tutto può concorrere a questo risultato, incluse religioni, filosofie, teorie psicologiche. Basta usarli in modo improprio e anche i valori più alti si trasformano in strumenti di schiavitù anziché di libertà.
Battisti, quando uccideva, credeva di fare bene, pensava di agire in nome di una giustizia (la cosiddetta giustizia proletaria). Si sentiva nel giusto. Adesso nel giusto ci sentiamo noi. Per lui le sue vittime non erano uomini, ma solo borghesi da eliminare, così come per tanti di noi, oggi, quello che torna in Italia per scontare la sua giusta pena non è un uomo ma solo un infame assassino.
Io non ragiono in termini politici: è il mio modo per salvaguardare un pezzo della mia libertà. Per me il rischio di diventare come Battisti è forte e sempre presente: è sufficiente sentirsi superiori ai nostri avversari, credere di essere in possesso del «discorso giusto» (poco importa se si destra o di sinistra), è sufficiente agitare, come scrisse tanti anni fa un amico, l'«ombra perfida dei distinguo», quell'ombra che ci impedisce di vedere che un assassinio è solo un assassinio, che un morto è un morto, e che trattare le persone in modo disumano è sempre e in ogni caso una cosa disumana.
Finché non impareremo a trattare gli altri in modo almeno un po' più umano rispetto a come siamo stati trattati, finché le parole di chi invoca giustizia non saranno radicalmente diverse (e non pericolosamente simili) da quelle di chi semina terrore, finché la
nostra giustizia sarà fatta solo di azioni uguali e contrarie rispetto all'ingiustizia che ci circonda, possiamo stare certi che nessun mondo nuovo si affaccerà all'orizzonte delle nostre vite e dei nostri paesi.Luca Doninelli
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