
Tre giorni fa sul Financial Times è apparso un titolo dal significato inequivocabile "Il voto in Italia in un ex bastione della sinistra: test per la tenuta della Meloni". La Regione in questione sono le Marche, definita regione "swing". Si può tradurre: "in bilico". Un modo altro per dire: "l'Ohio d'Italia". La larga affermazione del presidente Acquaroli fautorizza ironie. Non è mancato chi ha approfittato dell'occasione. In realtà, però, la vittoria del centrodestra non era affatto scontata. Il suo significato politico, per questo, non può essere banalizzato. Le ragioni risiedono nella storia ma non solo, anche altrove. Le Marche sono un antico feudo democristiano divenuto rosso nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Alle terre di Forlani e Merloni è accaduto ciò che è successo nella Basilicata di Emilio Colombo. In entrambe le Regioni la sinistra ha conquistato l'egemonia quando è caduto il Muro. E l'ha persa solo quando la competizione si è fatta tripolare. Nelle Marche, allora, Acquaroli prese più voti della somma di sinistra e Cinque Stelle. Ma la distanza fu più esigua di quella di oggi: 49% contro 46%. E poi partiva vincitore sicuro. Quando è così, è più facile.
Per questo, di fronte al ritorno del bipolarismo è razionale ritenere possibile (o temere) il ritorno al passato. Soprattutto se proprio da lì passa il fronte: quella linea sottile che divide la vittoria dalla sconfitta. I risultati nelle altre Regioni dove in questa tornata si voterà, infatti, sono scontati in partenza. Per mettere in crisi la tenuta della maggioranza, l'opposizione aveva solo la carta Marche. Giorgia Meloni, dunque, per come è andata, è autorizzata a ritenere che il fronte elettorale si sia chiuso, prima ancora che qualcuno provasse ad ampliarlo. Non è banale, anche per il momento politico nel quale ciò avviene. Si sta concludendo il terzo anno di governo senza che si avvertano segni di logoramento (quanto meno elettorale). Ci si trova, inoltre, nel bel mezzo di un'insorgenza movimentista che sconfina perfino dalla terra ferma per estendersi sui mari. Legittimo ritenere che qualcosa di queste mobilitazioni e della loro eco potesse condizionare, se non il voto, quanto meno la propensione a recarsi alle urne. Perché, quando la competizione torna a farsi bipolare l'astensione diviene più importante. Si vince o si perde anche (e soprattutto) a seconda di quanti elettori della tua parte convinci che uscire di casa per raggiungere un seggio sia tempo ben speso. Matteo Ricci, proprio per questo, sperava che le percentuali dei votanti potessero accrescersi. E invece sono scese di ben 9,73 punti. Ma non perché a disertare il voto siano stati quelli della maggioranza uscente.
Le cattive notizie per la sinistra non si fermano qui. La polarizzazione delle sue posizioni, derivante dall'accordo con i Cinque Stelle, ha spinto i moderati verso l'altra parte. Emblematico, a tal proposito, il fatto che i "popolari" dell'ex governatore Gianmario Spacca abbiano scelto il centro-destra. E la perdita al centro non sembra sia stata compensata da guadagni a sinistra. Se si considerano i risultati del recente referendum per l'abrogazione del Jobs Act, si scopre che nelle Marche hanno votato "sì" 325.928 elettori: quarantunomila in più di quelli che in questa tornata elettorale hanno scelto Ricci come governatore. Se ne deduce che le fratture sociali e quelle politiche non sono coincise.
Perché molti di coloro i quali sui referendum della Cgil non si sono astenuti, hanno poi votato per il centrodestra. Insomma: almeno nelle Marche il campo non si è allargato affatto. Sembra, piuttosto, una coperta così corta da lasciare scoperti ambo i lati.