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Pentiti buoni, cattivi o a comando

C'è pentito e pentito. Ci sono quelli che arrivano a collaborare con la giustizia dopo un percorso lunghissimo e quelli che, ben imbeccati da qualcuno, riescono a infinocchiare magistrati esperti.

Pentiti buoni, cattivi o a comando

C'è pentito e pentito. Ci sono quelli che arrivano a collaborare con la giustizia dopo un percorso lunghissimo, aiutati da un inquirente con cui stringono un rapporto di fiducia, stanchi di una vita da fuggiaschi, timorosi per il futuro dei propri figli. Poi ci sono i pentiti «telecomandati». Quelli che, ben imbeccati da qualcuno, riescono a infinocchiare magistrati esperti tipo Antonino Di Matteo, come è successo con Vincenzo Scarantino, che con la strage di Via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino non c'entrava nulla. Eppure qualcuno in Procura si bevve quelle panzane, salvo scoprire che era tutto orchestrato alle loro spalle. Di questo genere di pentiti che l'avrebbero incastrato si lamenta anche Giuseppe Graviano nel suo memoriale consegnato al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo che, insieme ad altri pm, indaga sulla presunta trattativa tra mafia e 'ndrangheta per orchestrare le stragi tra il 1993 e il 1994. Stragi nate perché la politica, dopo l'arresto di Totò Riina (concordato con i nemici mafiosi del feroce boss), tradì gli accordi contenuti nel famigerato Papello. Quali? L'abolizione del carcere duro per i boss e dell'ergastolo. In questo memoriale Graviano parla dei rapporti con Silvio Berlusconi, dei soldi che il nonno commerciante di frutta e verdura avrebbe dato al Cavaliere (20 miliardi), le cene con lui da latitante e le sue promesse mancate, definito per questo «un traditore». In aula aveva anche parlato di alcune presunte riunioni a Milano 3 assieme al cugino Salvo Graviano e del suo arresto il 27 gennaio 1994, alla vigilia di un incontro che avrebbe dovuto far entrare i Graviano nelle società immobiliari di Berlusconi, formalizzando dal notaio un impegno documentato «da una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo».

Insomma, dopo essersi lamentato dei pentiti telecomandati, il boss di Brancaccio ha deciso di aprire i cassetti della memoria. L'Espresso rivela che due pm stanno indagando per capire se le frasi di Graviano stanno in piedi. Si chiama in gergo «obbligatorietà dell'azione penale». Non sorprende più neanche la tempistica, visto che il «papello» di Graviano è dello scorso luglio, le affermazioni di qualche mese prima. In quel memoriale che Il Giornale ha letto ci sono accuse gravissime contro alcuni inquirenti, contro Gaspare Spatuzza, (ennesimo pentito anti Cavaliere) e altri collaboratori. Dichiarazioni pesantissime che certamente sono state vagliate dai magistrati. Lo scopriremo presto. È strano che la notizia venga fuori adesso che Berlusconi è tornato al centro della scena politica dopo un'impasse pericolosissima innescata dall'incapacità grillina di governare il Paese e soprattutto la pandemia. Ma tant'è.

Eppure c'è un altro «pentito» che ha deciso di vuotare il sacco, rivelando magheggi e trame che ha dovuto orchestrare suo malgrado. Come quando ha dovuto «uccidere» un collega facendogli saltare promozioni e carriere in nome di «indicibili accordi» e favorire altri colleghi, spalancando loro carriere immeritate. Quel «pentito» si chiama Luca Palamara e stranamente nessuna Procura, che ci risulti ha aperto un'inchiesta per valutare i reati commessi dai magistrati chiamati in causa dall'ex leader del sindacato delle toghe. Palamara ha avuto il merito di rivelare il segreto di Pulcinella che il Giornale sostiene da sempre, cioè che la giustizia a orologeria esiste (vedi Matteo Salvini o le attenzioni alle inchieste sul Pd). La lezione che un osservatore trae è che ci sono collaboratori utili quando chiamano in causa Berlusconi, ricordando fatti e circostanze di quasi trent'anni fa, o Giorgia Meloni, in testa ai sondaggi e stranamente infangata da storiacce vecchie di otto anni. E pentiti poco interessanti nonostante le loro «confessioni» scuotano dalle fondamenta un Sistema che - stando alle parole di Palamara al direttore Alessandro Sallusti - ha fatto e disfatto la storia politico-giudiziaria di questo Paese.

Come neanche la mafia è riuscita a fare.

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