Perché Bruxelles ora deve rilanciare

Trump non si scomoda se non ha un preciso interesse. E se ha scelto l'incontro in territorio neutrale, è perché ha capito che una guerra commerciale a tutto campo tra Washington e Bruxelles non conviene a nessuno

Perché Bruxelles ora deve rilanciare

Donald Trump ha scelto di annunciare di persona, accanto a Ursula von der Leyen, l'accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea. Non tre righe sul social Truth, non un tweet caustico, ma un incontro formale, con tanto di dichiarazioni congiunte. Una scelta che racconta più di quanto il presidente americano sia disposto ad ammettere e che certifica che l'intesa ha un peso politico ben maggiore della sua apparenza tecnica. Trump non si scomoda se non ha un preciso interesse. E se ha scelto l'incontro in territorio neutrale, è perché ha capito che una guerra commerciale a tutto campo tra Washington e Bruxelles non conviene a nessuno. Chiunque può capire che una rottura prolungata sui dazi avrebbe effetti sul rapporto strategico transatlantico, sfilacciandolo progressivamente. E aprirebbe due scenari inesplorati: l'Europa spinta verso una pericolosa ambiguità cinese e gli Stati Uniti risucchiati in una complicità neo-zarista con Putin. L'intesa raggiunta, che fissa i nuovi dazi medi al 15%, va però letta come una tregua, non come la pace definitiva. È qualcosa di meglio del 30% che minacciava l'inquilino della Casa Bianca, ma pur sempre quattro volte tanto rispetto alla media precedente al suo insediamento. Una misura che non va banalizzata, perché dietro ogni percentuale ci sono settori industriali, posti di lavoro, piccole imprese che vivono sull'equilibrio sottile tra competitività e marginalità. A complicare il quadro è poi il cambio del dollaro: negli ultimi mesi la divisa americana si è svalutata mediamente del 13% sull'euro. Il che, combinato ai nuovi dazi, rende più costoso vendere prodotti italiani oltreoceano. Un doppio colpo, che rischia di far vacillare la tenuta di interi comparti produttivi: dalla meccanica agli alimentari, dalla moda al design. A essere più esposte sono le imprese esportatrici di dimensioni medio-piccole, che non hanno la forza di contrattare condizioni più favorevoli né possono facilmente diversificare i mercati di sbocco. Così le commesse rallentano, i margini si riducono, i costi aumentano. E con essi i rischi di chiusure e delocalizzazioni. In un'economia come quella italiana, in cui il 70% dell'export manifatturiero è prodotto dalle pmi, anche pochi punti percentuali di dazio possono fare la differenza. Per questo sarebbe miope considerare l'accordo di ieri come un punto di arrivo. Se il negoziato si è limitato a fissare solo soglie numeriche senza costruire attorno una cornice politica di lungo respiro, l'intesa potrebbe naufragare alla prima mareggiata elettorale o economica. I dettagli sulle singole merci sono importanti, ma insufficienti. Serve altro. Molto altro. Sicché, subita l'imposizione, l'Europa deve pretendere non chiedere che il fronte si sposti sul tavolo politico. Con un'agenda chiara: difesa dei valori comuni, tutela della sicurezza alimentare, sanitaria e ambientale, investimenti coordinati nelle tecnologie e una transizione energetica sostenibile. In breve: serve un progetto condiviso che vada oltre la logica del dazio e della ritorsione, per tornare a parlare di cooperazione strategica. Va detto che anche gli Stati Uniti rischiano di pagare un prezzo alto per queste esibizioni muscolari. I dazi, nel breve periodo, fanno propaganda. Nel medio, generano inefficienze, inflazione e rallentamento della crescita. Non è un caso se l'industria americana a partire dalla filiera automobilistica ha già espresso forte preoccupazione per l'impatto sulle catene di approvvigionamento e sui costi di produzione. Le misure protezionistiche gonfiano i prezzi interni, colpiscono i consumatori e possono limitare fortemente la competitività stessa dell'industria Usa sui mercati globali. Non solo: un'America chiusa in se stessa, concentrata sulla protezione dei propri interessi immediati, rischia di indebolire il suo soft power. L'immagine di partner affidabile già incrinata per le numerose giravolte del suo presidente potrebbe erodersi ulteriormente, aprendo spazi a potenze meno democratiche ma più coerenti nei propri obiettivi strategici. Per l'Europa questo significherebbe un duplice rischio: subire un contraccolpo economico diretto e assistere al declino dell'architettura multilaterale su cui ha fondato la propria prosperità. Occorre allora un disegno autonomo con visione e ambizione. Le vicende di quest'anno ci dicono che il Vecchio continente non può più permettersi di mostrarsi come gigante, che però ha piedi d'argilla. L'unico modo per trattare con Washington chiunque sieda nello Studio ovale è completare il progetto europeo. Già il debito comune e l'Unione dei capitali sarebbero un gran passo avanti: non sono ambizioni da cassetta degli attrezzi, ma condizioni essenziali per la realizzazione di un progetto che altrimenti sfumerà nel nulla. Del resto, lo stesso Trump - spesso accusato, non a torto, di sminuire l'Europa ha usato nella lettera inviata a Bruxelles un termine che dice tutto. Ha chiamato l'Unione Europea "a country". Un Paese.

Per alcuni una forzatura frutto di un "copia e incolla" da una delle tante lettere inviate ma, come ci viene fatto notare da economisti di vaglia, quando a scrivere è il presidente della principale potenza mondiale, ogni parola merita attenzione.

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