Com'era prevedibile, la visita in Italia di Viktor Orbán ha riacceso le polemiche sull'identità dell'Europa. Forse il premier ungherese non merita una così ansiosa attenzione mediatica, visto che le sue esternazioni antieuropee e filorusse sono ampiamente note. Ma c'è un motivo per cui si parla tanto di lui: egli si presta alla perfezione ad essere usato come l'"uomo nero" delle favole. Un pretesto prêt-à-porter, per esaltare la contrapposizione tra chi immagina l'avvento di un'Unione "federale" e chi, invece, preferisce l'attuale modello "confederale". Allora è il caso di domandarsi: si tratta di un contrasto reale o solo di un'ingannevole alternativa ideologica? Una parola magica può aiutarci a risolvere il dilemma: "pragmatismo". Essa è stata usata da Mario Draghi, nella recente prolusione di Madrid, evocando la strategia di un "federalismo pragmatico", e ricorre spesso anche nel vocabolario di Giorgia Meloni.
Ebbene, cosa vuol dire, di fronte ai problemi della Ue, scegliere il pragmatismo? Significa innanzitutto rendersi conto che, purtroppo, ci sono due grandi ostacoli a rendere irrealizzabile il sogno degli "Stati Uniti d'Europa". Il primo è il frutto di un errore di analisi. Negli ultimi decenni si è diffusa l'idea che la globalizzazione avrebbe decretato il tramonto degli Stati-nazione. Non è andata così. Si nascondeva, in quell'errata previsione, un'imperdonabile confusione: quella tra l'oggettivo indebolimento delle sovranità statuali e il declino del concetto di nazione. Al contrario: se è vero che i nazionalismi europei hanno perso ogni antico istinto aggressivo (merito dell'Unione!) è anche vero che la maggior parte dei popoli continua comunque a identificarsi, e fortemente, nella propria nazione. Non solo l'Ungheria, ma anche Paesi "più europeisti" (Francia e Germania in testa) si rifiutano di cedere la propria sovranità.
Il secondo grande ostacolo ha a che fare con il tema dell'"identità". Il progetto federale, per compiersi davvero, avrebbe bisogno di un "idem sentire" culturale, perfino spirituale, che leghi le diverse nazioni intorno a riconosciute radici comuni. Ma anche su questo non c'è alcun accordo, nonostante tali radici siano evidenti. La "nazione europea" è infatti sempre stata disegnata, da San Tommaso fino a Hegel, come quella di un soggetto fondato sul "primato della persona". Dal diritto greco-romano alla diffusione del Cristianesimo, dalla magnificenza del Rinascimento alla potenza della stagione dei Lumi, la nostra identità poggia su tre chiare parole: persona, libertà, responsabilità. In sostanza, l'Europa è figlia del matrimonio tra il Cristianesimo e l'Illuminismo umanista. Eppure, ironia della storia, proprio le forze di sinistra che più si battono per il "progetto federale" sono le stesse che poi ricusano con forza tale identità. Il rifiuto della Convenzione, guidata da Giscard d'Estaing all'inizio del secolo, di inserire nella nuova Costituzione il riferimento alle radici cristiane, ne è stato il più probante esempio. E da allora il discorso è stato archiviato. Ma, senza riconoscersi in una comune identità, come potrebbero mai nascere gli Stati Uniti d'Europa?
Ebbene, avendo presenti questi enormi ostacoli, quale via seguire, allora, per consolidare l'Unione? La risposta sta, appunto, nel pragmatismo. Scriveva Edgar Morin: "Solo mostrare l'unità attraverso le sue diversità può aiutare gli europei a diventare europei". Una sorta di "unità nella diversità". L'Europa, insomma, deve essere considerata come una "nazione delle nazioni". Del resto, era proprio questa l'idea di Alcide De Gasperi che, pur non disdegnando il progetto federalista, disse che era "sopra un'associazione di sovranità nazionali" che le nuove forze dell'Europa libera avrebbero potuto affrontare il futuro. Il che, tradotto oggi, vuol dire lavorare proprio nella direzione di un "federalismo pragmatico". Laddove il tanto esecrato diritto di veto di ogni singolo Paese (che ha certo le sue ragioni) può essere bypassato con un più frequente ricorso alla "cooperazione rafforzata", sancita dal Trattato di Lisbona. Soprattutto sui temi di politica estera e di difesa.
Riuscendo, nello stesso tempo, ad abbattere ogni residuo ostacolo alla formazione di un debito comune. Intendiamoci: neppure questo è facile nell'Europa di oggi. Ma allora serve a poco "usare" Viktor Orbán come parafulmine delle nostre indecisioni e dei nostri ritardi.