Neppure il tempo di festeggiare giustamente una riforma attesa da trent'anni, quella che separa finalmente le carriere dei magistrati e promette di ridurre il peso delle correnti politicizzate nella magistratura, che i fatti si incaricano di ricordarci quanto sia ancora lunga la strada per ristabilire il corretto equilibrio tra i poteri dello Stato.
L'intervento della Corte dei Conti sul progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, con la "bocciatura" dello stanziamento di spesa, è un esempio emblematico di come la giurisdizione finisca per oltrepassare il confine della propria autonomia, incidendo sul terreno che appartiene, per principio costituzionale, alla politica.
Decidere quanti soldi chiedere ai cittadini attraverso il prelievo fiscale e come impiegarli per il bene comune è la quintessenza della democrazia rappresentativa. È compito dei poteri esecutivo e legislativo, nel loro combinato esercizio, stabilire le priorità della spesa pubblica. I cittadini delegano, con il voto, questa potestà ai loro rappresentanti; ed è a loro, e soltanto a loro, che spetta giudicare la bontà o l'errore delle scelte compiute.
Se invece la legge o la sua interpretazione estensiva consente a un organo non eletto, composto da funzionari e magistrati, di sindacare nel merito le decisioni politiche, si compie un passo pericoloso verso quella che di fatto è una forma di commissariamento della volontà popolare.
Non è colpa dei giudici contabili, che agiscono secondo le norme loro assegnate. È la politica ad aver creato questo squilibrio, spesso per calcolo, talvolta per paura. Negli ultimi decenni il legislatore, afflitto da un crescente senso di inadeguatezza e da un timore reverenziale verso l'opinione pubblica, ha approvato norme che limitano le proprie prerogative, rinunciando al ruolo di guida e di responsabilità che la Costituzione gli affida.
L'articolo 100 della Carta è chiaro: alla Corte dei Conti spetta il controllo di legittimità sugli atti di spesa, non il giudizio di merito. In altre parole, il magistrato contabile deve verificare che la procedura seguita sia conforme alla legge per esempio, che una determinata opera sia stata autorizzata con lo strumento legislativo previsto ma non può sostituirsi al decisore politico per stabilire se quella spesa debba essere fatta, né come. Eppure, nel caso del Ponte, è accaduto esattamente questo. E non è la prima volta. Perché? Perché la politica ha abdicato alla propria autonomia, lasciando aperte zone grigie in cui l'interpretazione giudiziaria diventa arbitrariamente espansiva. Perché, intimorita dal populismo di stagione da quel "uno vale uno" che ha confuso la rappresentanza con l'assemblearismo ha smarrito la consapevolezza del proprio ruolo e la fierezza della propria funzione.
Anziché difendere coralmente la dignità della politica, spesso i partiti l'hanno usata come arma contingente: esaltando le sentenze o gli avvisi di garanzia quando colpivano l'avversario, denunciando interferenze quando toccavano i propri esponenti. Così, passo dopo passo, si è eroso il principio dell'autonomia dei poteri, trasformando la giustizia in una variabile del consenso.
Ben venga, dunque, la riforma della giustizia e il doppio Csm, che rafforzano l'indipendenza reciproca tra giudici e pubblici ministeri.
Ma nessuna revisione organizzativa potrà restituire alla Repubblica il suo equilibrio originario finché la politica non avrà il coraggio di riappropriarsi pienamente delle proprie competenze, riscrivendo o chiarendo tutte quelle norme che oggi consentono ad altri poteri di invadere il suo campo.Solo allora i cittadini torneranno davvero a decidere del proprio destino attraverso i rappresentanti che hanno scelto. Perché in democrazia, la sovranità quella vera non appartiene ai tribunali, ma al popolo.