
Trump ha fatto il miracolo, dicono. Ha costretto Hamas e Israele a un accordo. Ogni bambino non morto è già una festa, anche se il brindisi sa di plastica e polvere. Perché questa non è la fine della guerra, ma una pausa. Una tregua legata con lo scotch.
La pace, in Medioriente, è sempre stata una finzione con la firma in fondo. Hamas restituirà gli ostaggi e Israele libererà prigionieri palestinesi; l'esercito israeliano inizierà a ritirarsi dalla Striscia, mentre Hamas dovrebbe disarmarsi completamente. E come da norma non scritta, chi fa la pace fa anche la ricostruzione: toccherà all'America, secondo un'idea sulla carta spettacolare, con la nascita di una metropoli sul mare, promessa di felicità da cartolina. Con i nostri magnifici carabinieri a istruire la polizia locale. Falso che sia immorale, la storia è fatta di città che nascono sulle tombe. Le metropolitane di Roma attraversano necropoli, al Gianicolo il Vaticano ha consentito che si trasformasse in un immenso garage per pullman la terra bagnata dal sangue dei martiri, e trasferita altrove senza benedizioni. E allora? Tutto perfetto, tutto impossibile. La guerra è finita, il conflitto no: resta nelle teste, nelle ossa, nell'aria.
Trump ha annunciato che si apre una "nuova era". Ma l'unica era nuova è la sua, sinceri complimenti. Impugna folgori per disarmare amici e nemici; lo fa per dare lustro al suo nome e ai suoi prossimi monumenti a cavallo, e ambire così al prossimo Nobel per la pace, avendo perduto, con sincero dolore di Putin, quello appena assegnato. Il rozzo Donald usa la politica e il fiuto, si fa trovare al posto giusto nel momento giusto, ed è così che scopi poco altruistici provocano, invece che danni collaterali come i missili balistici, benefici universali. La filosofia chiama questo: eterogenesi dei fini, nel nostro caso tutta grazia, che trasforma in maschere funerarie da profeti perdenti di Babilonia i ghigni di Schlein, Conte. Donald, da fuoriclasse napoleonico, ha colto l'attimo. Per Israele, la guerra era diventata un incubo economico e politico; per Hamas, una disfatta militare. Tutti avevano bisogno di fermarsi, non per convinzione, ma per sfinimento.
È una pace a orologeria. Perché un terrorista non cambia la testa con una firmetta. Hamas nasce per distruggere Israele, non per amministrarlo come un condominio di Gaza. E Israele non accetta di convivere con uno Stato palestinese vero, perché la paura è diventata dottrina di governo. Netanyahu, anche cedendo, potrà dire di aver ottenuto quasi tutto: Hamas disarmata, ostaggi liberati, zona cuscinetto, e la benedizione americana. Ma Hamas resta lì, come un cancro si riproduce. L'odore è quello di un fuoco spento con la benzina. Senza la prospettiva di due Stati uno israeliano e uno palestinese, ben separati tra loro la tensione riprenderà. Gli insediamenti in Cisgiordania sono ormai così numerosi e armati da rendere quasi impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Israele, con la sua legge fondamentale che lo definisce "Stato degli ebrei", ha escluso per principio l'uguaglianza reale dei cittadini arabi dentro i suoi confini.
La tregua è importante, sì. Ma a Gaza ci sono quindicimila ragazzi tra i quindici e i venticinque anni arruolati da nuovi capi che non hanno firmato niente, inferociti per il trattamento riservato alle loro famiglie. Sono una bomba innescata, un odio che scorre nel midollo più che nel sangue. È la classica pace prima della tempesta. Godiamocela, per carità, fingendoci ingenui come le ragazze leopardiane nel sabato del villaggio. Ma la domenica sarà una delusione. Non è cinismo: è pratica di vita.
E la domenica, restando nella metafora, è la guerra in Ucraina. Un milione di morti, e nessuna voglia di smettere (da parte dei due comandanti in campo, che lasciano falciare i loro giovani come spighe mature). Lì non ci sono tregue: solo pause per contare i cadaveri. È una guerra che non dorme mai, anche quando tace. E che oggi si combatte non soltanto tra trincee di fango ma si è allargata dentro i nostri telefoni, negli ospedali, nei conti bancari, nei cieli attraversati da droni che dicono: tocca a voi. La Russia, fallita la conquista-lampo, ha scelto l'infiltrazione lenta. Si entra nei nostri dati sanitari, nei sistemi energetici, nei nodi della vita digitale europea. È una penetrazione invisibile e scenografica insieme: qualche drone spettacolare serve per la propaganda, ma l'attacco vero si consuma nei bit, non nei carri armati. Mentre fingiamo di essere in pace, il fronte avanza in silenzio nelle fibre ottiche, nei satelliti, nei cervelli. È un assedio senza frontiere: non si conquista territorio, si conquista accesso.
In questo scenario il successo personale di Trump e del suo metodo " parlare male e razzolare bene " gli consente anche di infilare una zeppa tra gli alleati cinesi e russi. Come? Ringrazia Putin e ne diffonde il filmato dove lo zar sosteneva che il ciuffo arancione meritava il Nobel, proprio mentre Donald rompe platealmente con Xi Jinping sui dazi.
In realtà, i leader democratici o dittatori che siano sono tali perché esprimono il sentimento dominante del loro popolo: russi e americani, sotterraneamente, sono ossessionati entrambi dal pericolo orientale. Anche se la geopolitica sostiene che l'asse occidentale ormai va da Ovest a Est dagli Usa all'Indonesia e che si contrappone a quello che da Oriente sgorga dalla Cina e unisce Russia, Africa e Sud America, il genio matto della Casa Bianca, usando carota e bastone, può ancora scombinare le leggi dei rapporti di forza.
La geopolitica calcola, ma la storia deride. Perché la geopolitica tende a dimenticare il peso dei leader. E la storia, invece, li usa per prendersi gioco di noi.
Ci fa vedere grigio perché l'uomo è in generale cattivo, e in questo periodo molto cattivo. Ma non è la logica a dirigere il mondo: gli algoritmi devono arrendersi all'ironia della Storia, che qualcuno chiama Provvidenza. Sperèm.