Scena del crimine

"Da Willy fino a don Roberto: tutta la verità dietro i massacri"

Secondo il criminologo Marino D'Amore, la chiusura forzata in casa durante la pandemia ha acuito le tensioni fra gli uomini. Ma alla base, ci sono problemi di varia natura

"Da Willy fino a don Roberto: tutta la verità dietro i massacri"

Como è ancora sotto choc per la morte di don Roberto Malgesini, conosciuto come “il prete degli ultimi”. Il parroco è stato accoltellato il 15 settembre scorso sotto casa da un immigrato tunisino, con precedenti per furto e rapina e un provvedimento di espulsione mai eseguito. Violenza, dolore e morte: sono queste le parole che hanno caratterizzato le ultime settimane della cronaca italiana. La drammatica vicenda è stata preceduta da altri episodi simili come quello di Maria Paola Gaglione, la 22enne speronata e uccisa a Caivano in scooter dal fratello il 13 settembre. Vi è statto poi il caso di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso spietatamente solo perché ha cercato di difendere il proprio amico in una rissa la notte del 6 settembre a Colleferro. Un’altra rissa fuori da un pub a Perugia, ha causato il 15 agosto la morte del 24enne Filippo Limini.

Ma di omicidi ce ne sono stati tanti altri nel corso di questa estate. Per una maggiore riflessione in merito a quanto sta accadendo abbiamo incontrato il criminologo e sociologo Marino D’Amore, docente all’Università Niccolò Cusano di Roma, al quale abbiamo posto alcune domande.

Cosa può essere accaduto per scatenare un’escalation di fatti di cronaca nera in questo periodo?
“Purtroppo la violenza è un fenomeno che ha sempre accompagnato storicamente la vita e la socialità dell’uomo. I fenomeni di questo tipo non stanno aumentando, ma ci sono sempre stati. Adesso sono solo più visibili grazie ai mezzi di comunicazione che ne raccontano la drammatica realtà. In questo modo se ne amplifica la percezione”.

Può esserci un nesso fra l’exploit delle azioni di violenza e il recente periodo di lockdown?
“Sicuramente il lockdown e la paura della pandemia hanno acuito le tensioni e spento l’empatia tra gli uomini, spingendo molti, non tutti fortunatamente, al ritorno a una dimensione individualista che non annovera la solidarietà verso l’altro, anzi ne amplifica il rifiuto. Ma non è solo questo. Ci sono tanti altri fattori all’origine di queste vicende come, una mancanza di punti di riferimento indispensabili nella costruzione dell’identità e delle relazioni, in tutte le loro forme”.

Ci può essere un nesso fra tutti questi casi?
“Sicuramente sì. Sono fatti che mostrano la mancanza di modelli educativi efficaci e il fallimento delle vecchie agenzie di socializzazione come la famiglia e la scuola che oggi, purtroppo, sono terribilmente lontane dalle generazioni che dovrebbero formare. Il caso di Willy è in questo senso esemplificativo: Una violenza inaudita, sanguinaria, completamente irrazionale che causa la morte di un ragazzo perché aveva preso le difese di un suo amico. Una violenza tremenda per due motivi: il primo per la sua terribile modalità, il secondo perché inoltre cancella, eliminandola, l’unica azione, quella dell’aiuto, che una società dovrebbe premiare o stimolare e che invece riceve in cambio violenza, prevaricazione e indifferenza. Il caso di Maria Paola Gaglione ci parla invece, ancora una volta e aggiungo drammaticamente, di modelli educativi legati a un passato maschilista che percepisce la donna come un oggetto di possesso e, per questo, nega la gravità della sua eliminazione, come dimostra la volontà del fratello, il responsabile di quella morte, di partecipare al funerale della povera ragazza, colpevole di avere una relazione non consentita secondo quei modelli”.

Quanto influisce la certezza della pena per impedire una recidività nella commissione del reato?
“La certezza della pena sarebbe sicuramente un deterrente per tali azioni e, oggi, l’Italia non brilla in questo senso per usare un eufemismo. Per esempio, quando si parla di femminicidio, non si ha la percezione delle violenze che lo hanno preceduto e che ne erano i segnali premonitori, sia da parte delle vittime sia delle persone a loro vicine. Situazioni accettate come naturali e per questo, molte volte, taciute o poco considerate. Questa tacita accettazione è il risultato di un palese fallimento culturale”.

Su cosa occorrerebbe puntare per impedire il verificarsi di altre drammatiche vicende di questo tipo?
“Può apparire retorico, ma occorrerebbe puntare sulla formazione, sul rinnovamento di modelli educazionali e culturali ormai obsoleti, sulla volontà della famiglia e della scuola di rinnovarsi per accompagnare al meglio le giovani generazioni verso un futuro che oggi appare molto incerto, ma soprattutto sul dialogo e sulla conoscenza di ciò che appare differente”.

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