Il fermo di Stefano Binda è stato un grosso passo in avanti nelle indagini sull'omicidio di Lidia Macchi. Ha ora un volto la persona che ventinove anni fa uccise la giovane studentessa a Varese. Il volto di un uomo che non parla, che davanti ai magistrati non apre bocca, ma su cui gravano pesantissimi sospetti.
C'è quella poesia, imbustata e spedita, che descrive in versi l'omicidio della sua compagna di liceo, dopo una violenza sessuale. Un massacro perpetrato a coltellate, che ha tuttavia ancora alcuni punti da risolvere. A partire dalla possibile esistenza di un complice di Binda, che finora non si è trovata.
Se le analisi del Dna sono state fondamentali per portare avanti l'inchiesta, hanno però anche fatto sorgere un quesito nuovo. Perché le tracce di saliva trovate sulla busta in cui la poesia era stata spedita non corrispondono al Dna di Stefano Binda. E si pensa allora che qualcun'altro sapesse, anche se chi è ancora tutto da capire.
Secondo il gip Anna Giorgetti, scrive Il Messaggero, la spedizione da parte di un'altra persona "potrebbe rispondere a una strategia del colpevole di sottrarsi all'identificazione o essere eventualmente indicativa dell'esistenza e del coinvolgimento di un complice o di un favoreggiatore".
Ma fino a che Binda non aprirà bocca, soltanto
nuove rivelazioni potranno portare alla risoluzione di questo mistero. E mentre si pensa se riesumare il corpo di Lidia, la famiglia della ragazza uccisa ora lancia un appello: "Chi sa, si faccia avanti".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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