"Vi svelo quel delirio di onnipotenza che si cela dietro le serial killer”

Secondo la criminologa e psicoterapeuta Anna Maria Casale, le serial killer sentono di affermare il proprio valore nel momento in cui hanno il "potere" di decidere della vita e della morte delle loro vittime

"Vi svelo quel delirio di onnipotenza che si cela dietro le serial killer”

Una giovinezza segnata dalla depressione e dall’anoressia che ha sempre cercato di nascondere agli occhi di tutti portando avanti gli studi scolastici come un’allieva modello. Un’apparente vita tranquilla quella di Sonya Caleffi, che è cresciuta portando dentro di sé l’eco le parole della madre che asseriva di non aver motivi per vivere. Quel tormento della mamma, come la stessa Sonya ha dichiarato più in avanti, avrebbe turbato profondamente la sua serenità incidendo sul suo futuro da serial killer. Finiti gli studi nel 1993 Sonya Caleffi ha iniziato a lavorare come infermiera in diversi ospedali e, dopo quattro tentativi di suicidio, sono arrivati gli omicidi. Nel 2003 all’interno dell’ospedale Sant’Anna di Como, ha ucciso 8 malati terminali tramite iniezioni di aria nelle loro vene. È stata inoltre accusata di aver causato la morte di 18 persone nel 2004 all’Ospedale Manzoni di Lecco e il 15 dicembre di quello stesso anno è stata tratta in arresto. La confessione dell’assassina è rimasta limitata però solo a 6 omicidi: “Praticavo - ha detto - quegli interventi perché mi piaceva che tutti accorressero in tempo a salvare i pazienti”. Cosa scaturisce nella mente delle serial killer? Ne abbiamo parlato con la criminologa e psicoterapeuta Anna Maria Casale.

Perché le serial killer donne sono in numero esiguo rispetto agli uomini?

"Possiamo attribuire a questa inferiorità numerica quelle che sono le differenze sostanziali tra uomo e donna derivanti da pulsioni intime differenti: le donne hanno delle capacità alternative di reazione e riescono, attraverso modalità proprie, a convertire l’aggressività in qualcosa di diverso. C’è poi anche la diversità che contraddistingue i due sessi a livello ormonale: avendo una quantità di testosterone inferiore rispetto a quella maschile, il genere femminile è portato a usare meno l’aggressività. Le donne serial killer sono di numero inferiore rispetto agli uomini anche perché molto spesso si verifica quel fenomeno che in criminologia viene chiamato ‘numero oscuro’: si tratta di quegli omicidi, anche plurimi, che non vengono alla luce proprio per la modalità omicida difficile da riconoscere".

Qual è il loro modus operandi? Seguono una specifica metodologia o improvvisano? O entrambe le cose?

"Le donne rispetto agli uomini non eccedono in violenza ma usano delle metodologie ‘meno invasive’, tramite ad esempio l’utilizzo di veleni o attirando le loro vittime con dei modi più arguti e meno cruenti. Nel caso degli ‘angeli della morte’, facendo leva sulla fragilità di alcuni soggetti, le infermiere serial killer avvelenano poco per volta le loro vittime e spesso non vengono scoperte proprio per questo modus operandi meno aggressivo. Se le donne usano il veleno, gli uomini fanno a pezzi le loro vittime ed è proprio la modalità di morte della vittima che fa la differenza: nel primo caso è più difficile risalire all’omicidio, nel secondo caso è evidente. Poi vi è il caso della 'saponificatrice di Correggio': lei uccideva in modo arguto quando faceva firmare alle vittime della cartoline, nelle quali avvertivano i conoscenti di aver intrapreso un viaggio. Proprio per questo motivo la loro scomparsa dopo l’omicidio non destava sospetto".

Chi sono le loro vittime e come le scelgono?

"Le vittime sono spesso persone indifese e fragili e in altri casi si tratta di uomini facoltosi, spesso molto grandi di età rispetto alle serial killer e aventi un certo potere economico. Le cause sono quindi legate a motivazioni psicologiche interne molto profonde (come quelle di ritrovare il proprio valore provocando la morte in altre persone) o legate al denaro".

Sonya Caleffi sperava che qualcuno salvasse in tempo le sue vittime. Cosa guida le serial killer, tra cui la più celebre Aileen Wuornos?

"Sono guidate da un senso di onnipotenza. Nel caso della Caleffi possiamo dire che lei ritrovava il proprio valore provocando la morte delle persone. Si sentiva indispensabile e importante lì dove riusciva a salvare la vita a qualcuno secondo il seguente principio: ‘io ti faccio star male a tal punto che mi sento grande nel momento in cui riesco a salvarti solo se lo voglio’. Dopo aver commesso l’azione omicida la Caleffi diveniva il mezzo attraverso il quale chiedere aiuto agli altri, e si sentiva grande nel momento in cui viveva questa situazione. È un ragionamento contorto che accomuna tutti gli angeli della morte. Loro si sentono padroni della vita e della morte delle loro vittime decidendo sulle loro sorti. In queste decisioni si sentono onnipotenti. È un senso di onnipotenza delirante. Nel caso di Aileen Wuornos invece dobbiamo fare un discorso più generale che accomuna tutte le serial killer: tutte queste persone diventano delle assassine perché hanno alla spalle un’infanzia e un’adolescenza problematica. Hanno vissuto con dei traumi importanti che sono riuscite apparentemente a gestire ma poi, nella vita adulta, il malessere vissuto si è ripresentato venendo espresso in maniera negativamente grandiosa. In loro c’è un senso di vendetta che le guida, come nel caso della Wuornos. Lei si vendicava verso gli altri come a volersi riscattare per le sofferenze vissute".

Cosa influisce sulla loro “formazione” criminale?

"Sicuramente i traumi infantili e adolescenziali creano un terreno fertile.

Per fortuna non è così per tutti i casi altrimenti saremmo circondati da serial killer. Quello che influisce sono anche le frustrazioni che la vita adulta riserva loro. Per cui questi malesseri adolescenziali si sommano a quelli dell’età adulta e le frustrazioni si scaricano in questo modo violento".

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