Cultura e Spettacoli

La cultura Usa è nata all’ombra dei teepee

Nella storia accade spesso. Quando i fucili tacciono, quando i morti vengono seppelliti, e il conquistatore ha da tempo piegato la resistenza del conquistato tutto diventa più sfumato, meno chiaro. Sia senso di colpa, rispecchiamento nell’altro, rimpianto della lotta poco importa. Il vinto diventa parte della cultura del vincitore. Lo sconfitto diventa l’eroe, triste e bello di quella bellezza che solo la caduta può dare. Nessuna civiltà incarna questo ribaltamento quanto quella nord-americana. Gli yankee, massacrando gli indiani li hanno, paradossalmente, resi immortali.
Per rendersene conto niente di meglio di Il ritorno del pellerossa. Mito e letteratura in America di Leslie A. Fiedler (Guanda, pagg. 284, euro 22). Fiedler (1917-2003) è stato uno dei più grandi critici della letteratura Usa e la sua trilogia sul romanzo, di cui Il ritorno del pellerossa è il capitolo finale, regala un quadro irripetibile sui libri che hanno creato archetipi culturali diffusi in tutto il mondo. E Fiedler è geniale nella reductio ad unum dei canovacci che animano centinaia di romanzi. Ecco allora che decine e decine di eroi come Il piccolo grande uomo di Thomas Berger o il Jeremiah Johnson di The Mountain Man di Vardis Fisher (il pubblico italiano lo conosce per il film Corvo Rosso non avrai il mio scalpo) vengono ricondotti con ragionamento lucidissimo al Nathaniel Bumppo (nella foto), il bianco che si fa indiano, di James Fenimore Cooper (1789-1851). L’eroe di Cooper, vero e proprio modello primigenio, traccia le caratteristiche del maschio americano: non più un bianco del Vecchio continente e non un indiano. Un uomo sospeso, malinconico ma forte, destinato a reincarnare e rinnovare l’indiano. Ma non solo. L’incontro con «la nuova gente venuta dall’altra sponda del grande fiume Oceano» crea anche una nuova eroina femminile, anch’essa sospesa tra bene e male, tra seduzione e forza d’animo, una creatura quasi edenica, che non ha più i tratti della dama puritana. In questo caso l’archetipo è il personaggio storico di Pocahontas (1595-1617). La regina indiana viene trasfigurata dalla letteratura americana: a volte sbiancata con la candeggina, a volte trasformata in femmina torbida e sensuale. Sempre e comunque, però, simboleggia la resa della nuova terra all’uomo europeo: una amazzone che non fa paura.
Ma quanto di questi nuovi modelli dell’immaginario sono poi ritornati al di qua dell’Oceano? Una risposta a questa domanda la si può avere sfogliando un libro italiano: I cavalieri del West. Storia cinema, leggenda di Andrea Bosco e Domenico Rizzi (Le Mani, pagg. 326 euro 22). Questo tomo, scritto con penna agile, cataloga (comparando sempre storia e cinema) alcuni dei più grandi miti del West. Nel capitolo «Ombre rosse» l’elencazione di eroi indiani mette in fila: Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Geronimo e Cochise. E se la storia e il mito si somigliano poco vi accorgerete leggendo che il mito lo conoscete benissimo. Ormai è anche nostro, di quegli europei che non hanno mai cercato nessuna nuova terra. Come spiegano infatti gli autori, esiste «un West senza tempo» dove siamo andati tutti. Chissà se sotto i teepee o in fuga nelle riserve qualche stregone, avvolto dal calore della cerimonia del fumo, ha mai previsto nulla di simile...

Forse gli avrebbe fatto piacere, forse no, ma la storia dei perdenti la scrivono i vincenti, rendendoli eterni.

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