«Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e forse anche il problema dell’analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario ». Questa frase Luciano Bianciardi la scrisse durante i suoi anni di «lavoro culturale» alla Biblioteca Chelliana di Grosseto, tra il 1949 e il 1954, e molto racconta della sua capacità di intuire problemi ancor oggi di attualità in un’Italia dove esistono più scrittori che lettori.
Bianciardi, per anni caduto nel dimenticatoio, oggi è finalmente al centro di una riscoperta anche editoriale: tutti i suoi libri sono disponibili (per lo più da Feltrinelli) e gli è finalmente riconosciuta l’importanza che merita nella letteratura del ’900. Anticipatore di Pier Paolo Pasolini nell’intuire, sin dall’inizio degli anni ’50, la «diseducazione sentimentale e morale degli italiani durante l’imminente miracolo economico », capace anche di anticipare Umberto Eco sull’omologazione causata dalla televisione (come ho ampiamente dimostrato per la prima volta nel mio saggio del 2014 Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, Edizioni Clichy).
Lo scrittore che con La vita agra nel 1964 (romanzo poi diventato un film di Carlo Lizzani) fu il primo a descrivere l’altra faccia della «dolce vita» in una Milano disumanizzata dal progresso, è stato anche il primo intellettuale a comprendere come fosse la cultura a dover andare incontro alla gente e non il contrario. Dopo gli studi interrotti alla Facoltà di Lettere all’Università di Pisa, chiamato alle armi, si laureò poi in Filosofia per insegnare prima Inglese in una scuola media, poi Storia e Filosofia al liceo classico «Carducci» dove si era diplomato: nel 1951 venne nominato Direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto.
Ed è proprio alla sua esperienza di bibliotecario illuminato che la saggista Elisabetta Francioni dedica Luciano Bianciardi: bibliotecario a Grosseto (edito dalla Associazione Italiane Biblioteche, pagg. 176, euro 30): un volume, con presentazione di Alberto Petrucciani e postfazione di Arnaldo Bruni, che ricostruisce per la prima volta in maniera documentata e inedita l’attività di Luciano Bianciardi tra il 1949 e il 1954. Un libro destinato non soltanto ai bibliotecari o ai cultori di Bianciardi, ma a tutti coloro che vogliano capire come la cultura non sia soltanto una passione, ma possa diventare un lavoro: Il lavoro culturale, come Bianciardi titolò il suo secondo libro (1957).
Grazie ad una scrittura rigorosa, ma dal passo narrativo quasi romanzesco Elisabetta Francioni ci racconta la storia di un uomo e un intellettuale convinto che la cultura dovesse nascere non solo dalle librerie, ma soprattutto dalle biblioteche. Quelle stesse che Bianciardi molto criticò cercando di migliorarle: sia quando era direttore, ma anche in tutti i libri successivi, come ne La vita agra dove non manca di sottolineare come la «Braidense» di Milano soffrisse di quelle atmosfere austere, solenni, quasi respingenti, comuni a molte biblioteche italiane.
In realtà Bianciardi, come racconta Elisabetta Francioni, fu nominato dal comune di Grosseto sin dal 1948 «direttore provvisorio » della Biblioteca Chelliana, da tempo chiusa a causa di una alluvione. Bianciardi è in prima linea per la ricostruzione, che si riesce a completare in breve tempo; e nell’ambito di un progetto culturale complessivo fonda un Cineclub, apre la Biblioteca a nuovi utenti organizzando conferenze e letture e gira la provincia a bordo di un «bibliobus », un pulmino carico di libri con cui raggiunge i più svantaggiati alla lettura, come i contadini e i minatori (ai quali nel 1956 dedicherà il libro I minatori della Maremma, la prima grande inchiesta del dopoguerra sul mondo del lavoro, esempio tra i più riusciti di letteratura di denuncia).
Se prima la Biblioteca Chelliana, come scriverà ne Il lavoro culturale, era un luogo polveroso dove «non ci entrava quasi mai nessuno», ad eccezione degli eruditi che trascorrevano pomeriggi interi a «rovistare tra codici e manoscritti» con un vecchio bibliotecario che «come molti dei suoi colleghi considerava la biblioteca un suo luogo privato», Bianciardi pensa subito al modello anglosassone di public library, una «biblioteca pubblica» che si rivolga a tutte le categorie sociali, al pubblico colto come a quello poco o per niente colto. Con il «bibliobus», «un autofurgone Lancia 900 con un totale di 20 metri quadri di scaffalatura allestito con manuali Hoepli di divulgazione tecnica, un’enciclopedia, La Bibbia, Il Corano, i Classici della Letteratura nei tascabili della Mondadori e della Bur» Bianciardi inventa «la cultura su quattro ruote ». Perché non si limita a segnare prestiti o a consigliare libri, ma davanti al «lettore periferico » si impegna anche in «letture commentate» e in «recensioni parlate di opere e autori».
Bianciardi trasforma la Chelliana da «un freddo spaccio di libri in una vera e propria scuola di lettura». Ed ecco l’idea, ancora oggi poco frequentata: non scuole di scrittura, ma scuole per imparare l’arte della lettura. Formare nuovi lettori: non vecchi scrittori. Bianciardi dopo il «bibliobus» ha anche l’idea di portare il Cineclub su quattro ruote. E ai minatori inizia a far vedere capolavori del cinema come Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin o La terra trema di Luchino Visconti.
In Luciano Bianciardi: bibliotecario a Grosseto possiamo ripercorrere le orme non solo di un grande scrittore e intellettuale, ma quelle di un’epoca in cui le fanfaronate del ’68 non avevano ancora fatto scuola, ed esisteva un mondo sociale e culturale capace di accogliere, oltre alle innovazioni tecnologiche, anche le nuove strade del sapere.
Un mondo poi affossato dalla commercializzazione editoriale di cui oggi vediamo i disastrosi risultati. Dalle biblioteche, ed è questo il messaggio di Bianciardi e del libro, può rinascere davvero quella Bellezza che abbiamo perduto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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