Nello studio milanese di Luigi Brioschi è appesa una vecchia foto in bianco e nero, scattata a Parma. Ci sono, tra gli altri, il germanista Giorgio Cusatelli, il critico Pietro Bianchi, Attilio Bertolucci - il direttore della «Fenice», storica collana di poesia della Guanda - il pittore Carlo Mattioli, che aveva disegnato il marchio della casa editrice, Pietro Barilla, un imprenditore che amava frequentare giornalisti e scrittori... Era il 1952, e Ugo Guanda festeggiava i vent’anni di attività editoriale. Oggi la casa editrice - che ne compie novanta (a proposito: Auguri) - è guidata da Luigi Brioschi. Letture impeccabili e manières raffinées, è direttore editoriale della "maison" dal 1988, e presidente dal ’99.
Chi era Ugo Guanda?
«Un uomo colto e curioso, laureato in Scienze naturali ma appassionato di letteratura e di buone letture. A 27 anni decise di fare l’editore e nel 1932 fondò a Modena la casa editrice, che qualche anno dopo portò a Parma. Il suo amico Antonio Delfini non la prese bene… Però lì incontra Attilio Bertolucci, il quale non solo dirige la collezione di poeti stranieri “La Fenice”, ma con Ugo Guanda dà forma a una casa editrice curiosa, attenta al nuovo, che guarda alle correnti più originali del pensiero moderno. La narrativa, ad esempio. In quei primi anni Guanda pubblica autori non scontati come Frassineti, Dessì, Boine, Jovine…».
E la poesia.
«Infatti. In un momento non facile, tra le due guerre, in una città colta, ma di provincia, Bertolucci riesce a intercettare il meglio della poesia internazionale: Jiménez, Lorca, Block, Eliot, Yeats, Hopkins, Aragon, Apollinaire… E gli italiani che si stavano affermando, come Mario Luzi o Alfonso Gatto… Di fatto in quegli anni Guanda fissa un modello per quella che oggi viene considerata l’editoria di qualità». E oggi, cos’è Guanda?
«Beh, noi abbiamo ripreso il cammino in condizioni completamente mutate, è certo. Ma Guanda significa ancora ricerca assidua del nuovo, nel segno della qualità. Una ricerca a tutto campo, con una certa preferenza per gli itinerari impervi, evitando le specializzazioni, le tendenze, le mode, che sono da fuggire. La moda è il già fatto: l’editore deve cercare altro. Qualche anno fa, avendo pubblicato autori come William Trevor, John Banville, Roddy Doyle e Catherine Dunne, mi hanno chiesto di fare un intervento a un convegno sulla tradizione letteraria irlandese. Ma quegli autori erano stati acquisiti per il loro intrinseco valore, non perché irlandesi. E io non sono uno specialista di letteratura irlandese. La vocazione di un editore non è la fedeltà a un genere o a un’area culturale: direi che è l’opposto, è il nomadismo».
La norma per il buon editore?
«Sapere che ci sono regole, sistemi, procedure, ma anche guardare oltre, scavalcando la regola quando serve».
Esempi? «Il caso Sepúlveda: un autore che non ci era stato segnalato da uno scout o proposto da un agente. Era il 1992. Lessi sul francese L’Express la recensione di un romanzo dal titolo curioso, "Le vieux qui lisait des romans d’amour". Si trattava, evidentemente, dell’edizione francese di un romanzo d’autore spagnolo o ispanico. Chiesi a un’amica che viveva a Parigi di mandarmi una copia del libro: ce l’ho qui, in quell’armadio, me la sono fatta dedicare da Sepúlveda molti anni dopo. Lo lessi, mi conquistò e lo acquistammo. Ad oggi, il romanzo ha venduto un milione di copie». Altri casi?
«Così esemplari forse no. Ma quel che voglio dire è che è sempre bene guardarsi intorno, anche al di fuori dello spazio professionale, quello degli agenti, le fiere del libro, gli addetti ai lavori… Nel 2013 non sarei stato così pronto ad acquistare il nuovo romanzo di James Salter, uno scrittore considerato in America una specie di classico vivente ma semisconosciuto in Italia - il libro era "All That Is", che sarebbe stato l’ultimo, perché l’autore morì due anni dopo - se un amico francese non mi avesse consigliato per anni di leggerlo. "Trainspotting", il romanzo originale e tempestoso di Irvine Welsh, mi era del tutto ignoto e lo scoprii quando, arrivando a Londra per la Book Fair, notai che ne era già stata tratta una pièce, che tentai di andare a vedere senza riuscirci. Altro esempio. Lessi il romanzo d’esordio di Paola Mastrocola "La gallina volante", uscito nel 2000, perché mi fu suggerito da Marta Morazzoni, persona dal giudizio sicuro. Quanto a Marco Vichi, quando non aveva ancora pubblicato nulla, ma aveva già pronti tre romanzi della serie del commissario Bordelli, mandò in casa editrice un piccolo testo, "L’inquilino". Era il 1999. Lo lessi e in quel racconto lungo colsi subito la voce autentica di un narratore. Investimmo sull’autore sulla base di cento pagine».
Un consiglio per aspiranti editori?
«Saper rispondere all’ardimento che è proprio dell’autore. Cito, fra tanti, un caso. Quando ho letto in manoscritto "Everything is illuminated", il libro d’esordio di Jonathan Safran Foer, sono stato così impressionato dal senso di sfida che emanava da quel testo originale e innovativo che facemmo subito un’offerta per il libro. E così accadde che fummo i primi al mondo ad acquistarlo. Prima ancora che avesse un editore americano. E il successo ha premiato anche noi».
Lei è stato in Rizzoli, Longanesi, Guanda. Negli anni ’60 frequentava casa Vittorini. Ha lavorato con Ottieri, Oreste Del Buono, Raffaele Crovi… Cos’è cambiato in editoria?
«Sappiamo tutti che è cambiato molto. Ma diversamente da tanti altri mestieri che rispetto a 60 anni fa non esistono più o non sono più riconoscibili, nell’editoria certi elementi sono rimasti inalterati. Quali? La curiosità come attitudine mentale. L’ostinazione a cercare in campi apertissimi. Il saper sentire qualcosa che nella scrittura renda un autore diverso da tutti gli altri. E sapere che quell’autore esiste: sei tu che lo devi trovare. Il giorno in cui non avrò più la speranza di trovare un Jonathan Safran Foer allora smetterò di fare l’editore».
La speranza o l’ambizione?
«L’una e l’altra».
Qual è l’ambizione massima per un editore?
«Potrei risponderle con l’elogio funebre scritto per un editore tedesco, Peter Surhkamp: “È stato capace di portare al successo libri che non lo chiedevano”».
Luoghi comuni da cui difendersi?
«Quello secondo cui l’editore è un ponte tra il mondo della creatività, da un lato, e dall’altro il mercato. Posso anche accettare l’immagine, ma mi si lasci spostare leggermente l’editore dal centro del ponte verso l’opera e l’autore. L’editore deve far sua la proposta, deve immedesimarsi nell’opera, e proprio per portarla con più efficacia e con più argomenti al pubblico. E comunque credo non ci sia questa grande differenza fra libri di qualità e libri per il mercato. "Patria" di Fernando Aramburu, uscito in Spagna nel 2016, è un romanzo di “narrativa innovativa” e nello stesso tempo un romanzo per il grande pubblico».
Si continua a ripetere che in Italia si legge poco.
«La verità è che in Italia si è sempre letto poco rispetto, ad esempio, a Francia o Germania. Resto però dell’idea che sono decisive scuola e famiglia. Ho visto di rado qualcuno diventare lettore dopo i vent’anni».
E il catalogo? Quanto conta?
«Molto, soprattutto per una casa editrice come Guanda. Ma è di novità che si vive. O si muore».
Il libro di carta come sta?
«L’ho visto sopravvivere talmente bene in tutti questi anni… La centralità del libro di carta non è in discussione».
Il futuro di Guanda? «Non amo i grandi disegni strategici. Sono più per l’ascolto, giorno per giorno, di quel che suggerisce il lavoro. E poi non si decide o si progetta da soli: non saremmo quello che siamo senza il ruolo sostanziale che ha avuto e ha per la Guanda Stefano Mauri, come amministratore e come azionista di maggioranza. E poi non bisogna dimenticare il proprio passato. Che per Guanda è sempre stato due cose. La narrativa originale e innovativa. E la migliore poesia europea e italiana.
Tra poco pubblicheremo una raccolta di Emilio Isgrò. Mentre tra gli stranieri escono "This Blue" della poetessa americana Maureen McLane e le poesie politiche della bielorussa Valzhyna Mort. Così “La Fenice” continua, 90 anni dopo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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