La democrazia stalinista di Flores d’Arcais

La democrazia stalinista di Flores d’Arcais

Paolo Flores d’Arcais ha scritto un saggio, Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta (Add editore), di cui bisogna essergli grati giacché dimostra, in maniera inequivocabile, come la cultura politica italiana sia irrimediabilmente dilacerata e come una parte consistente dell’intellighenzia nazionale navighi a una lontananza di ventimila leghe dalle coste del liberalismo. Nessuno vuol incolpare Flores d’Arcais per il suo fanatismo giacobino, per la sua esaltazione della Comune - «il momento di più autentica democrazia che abbia conosciuto la storia» -, per l’entusiastico richiamo al pensiero di Rousseau - «uno dei compiti più importanti del governo consiste nel prevenire l’estrema diseguaglianza delle fortune (...) impedendo a tutti i mezzi per accumularle» -, per la sua riproposta della marxiana glossa a Feuerbach (potenzialmente totalitaria) che prescrive ai filosofi il compito di cambiare il mondo, non di conoscerlo.
Le idee di Flores d’Arcais vengono tutte dalla sinistra azionista confluita poi nella sinistra socialista e sono ampiamente condivise da una nutrita schiera di intellettuali militanti che hanno fatto dell’endiadi libertà/eguaglianza (o libertà/giustizia) l’insegna di una battaglia aspra, intransigente, senza esclusione di colpi, contro la società dei consumi e l’economia di mercato, colpevoli di calpestare i «diritti dell’uomo e del cittadino», nei tre secoli scorsi, il lievito ideale delle rivoluzioni atlantiche. A differenza dei suoi sodali, però, Flores d’Arcais gioca decisamente a carte scoperte sui tre piani di cui si compone l’edificio sociale: l’economia, la politica, la cultura.
«Una testa, un voto» significa che bisogna sopprimere «ogni influenza del denaro nell’orizzonte politico» e attribuire allo Stato la «redistribuzione costante della ricchezza attraverso un welfare massiccio e una fiscalità progressivamente progressiva»: quanto più forte sarà la politica, tanto più debole sarà l’influenza di un Sergio Marchionne - «un nemico della democrazia» - giudizio, questo, di «una evidenza lapalissiana» che prescinde «da qualsiasi pregiudizio ideologico». Al potenziamento della sfera pubblica, necessario per abbattere le torri del privilegio, deve accompagnarsi la delegittimazione di quanti marciano contro. Nessun riconoscimento, quindi, è dovuto alla destra. «Poiché la democrazia è lotta-per-la-democrazia, a rigor di logica dobbiamo concludere che “democrazia” coincide con “sinistra”. Un governo conservatore o reazionario, servile o corrivo verso l’establishment, realizza sempre democrazia umiliata e offesa». Monito ai neo-girondini: «la limitazione della democrazia nella cornice della democrazia» non verrà tollerata più a lungo! Sul piano culturale, la democrazia non può essere neutrale ma deve mirare a un «illuminismo di massa», in grado di tacitare la voce delle chiese e di guarire gli individui dalla malattia della privacy: «è illusorio che si possa realizzare la propria autentica individualità nella sfera privata. È solo nella vita pubblica che possiamo essere autenticamente individui, esercitare l’aspetto irripetibile dell’esistenza, dare vita al nuovo, in una parola agire».
Primato della res publica sui «privati», messa al bando di quanti remano contro la volontà generale, educazione illuministica di massa: che cosa distingue questo vaste programme da quello collettivista classico? Lo spirito libertario! Sotto Stalin, a spedirti nel Gulag era il burocrate del KGB: nella repubblica di Flores d’Arcais, saranno i cittadini, emancipati dai lumi, cultori dei diritti dell’uomo, resi eguali dalla distribuzione delle ricchezze, ad allontanarti dalla polis, se sei un irrecuperabile conservatore.

L’Italia dell’Ottocento diede al mondo un grande e nobile visionario, Giuseppe Mazzini, che Marx definì teopompo, «inviato da Dio». Nell’Italia post-berlusconiana, dobbiamo accontentarci di un teopompino, Paolo Flores d’Arcais, temo assai meno innocuo dell’esule genovese.

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