Il 23 maggio 1942 Galeazzo Ciano annotò una reazione infuriata di Mussolini: «Il Duce telefona indignato contro l'Ambasciatore Giapponese Shiratori, che ha fatto alcune dichiarazioni veramente inqualificabili: al Giappone spetta il dominio del mondo, il Mikado è il solo Dio in terra e bisognerà che il Duce e Hitler si rassegnino a questa realtà». Il diplomatico nipponico, Toshio Shiratori, che nel processo di Tokio sarebbe stato condannato al carcere a vita, sostenitore da sempre dell'idea di un conflitto mondiale necessario per creare un «nuovo ordine» in Asia, era apparso a Ciano «un fanatico estremista» e, soprattutto, «un gran maleducato». Alcuni mesi prima, il 7 dicembre 1941, l'attacco delle forze aeronavali giapponesi alla base americana di Pearl Harbur nelle isole Hawaii aveva esaudito le speranze di chi, come Shiratori, voleva la guerra. L'attacco era stato pianificato e, guidato dall'ammiraglio Isoroku Yamamoto, ma, dietro, vi erano sollecitazioni imperialistiche e tentazioni bellicistiche di ambienti militari e dell'industria pesante.
L'imperatore Hirohito, all'epoca appena quarantenne, sarebbe stato poi percepito come simbolo dell'imperialismo nipponico, ma le sue responsabilità nello scatenamento del conflitto sono tuttora oggetto di controversia. Erano, infatti, assai meno estesi di quanto si possa pensare i poteri reali di questo sovrano, salito al trono giovanissimo nel 1926 ma già da un lustro, appena ventenne, incardinato come reggente di una monarchia costituzionale nella quale la figura dell'imperatore aveva un forte valore simbolico. All'Occidente il popolarissimo Hirohito - che sembrava incarnare la tradizionale cultura giapponese sulla natura divina dell'imperatore e, insieme, la volontà di spingere il Paese verso la modernizzazione pur conservandone l'identità - era piaciuto, tanto che venne considerato un «amico» soprattutto all'indomani del viaggio compiuto in Europa ancora come principe ereditario. Colpì positivamente, poi, il fatto simbolico che Hirohito avesse voluto scegliere il termine «Showa», cioè «Pace illuminata», per caratterizzare il suo regno.
Per qualche tempo sembrò così che il volto di Hirohito, mite e pacifico, fosse quello del suo stesso Paese: il Giappone aderì nel 1928 al Patto Briand-Kellog di condanna della guerra e, due anni dopo, ratificò il Trattato navale di Londra sulla limitazione degli armamenti. Poi, fra gli anni Trenta e Quaranta, le cose cambiarono e iniziò una stagione di espansionismo in Cina e nel Sud Est asiatico in nome della lotta, caldeggiata soprattutto dai militari, contro il comunismo sovietico e quello che veniva definito un rinnovato imperialismo occidentale: una stagione che avrebbe trovato la tragica conclusione nell'attacco aeronavale a Pearl Harbor.
Che gli ambienti militari, in sotterranea lotta fra di loro, fossero i veri detentori del potere è un fatto. Le questioni di politica estera e militare erano discusse da un organismo ristretto composto dal primo ministro, dai capi di stato maggiore delle forze armate, dai ministri della guerra, della marina e degli esteri. Poi, il primo ministro convocava una Conferenza Imperiale, integrata con altri ministri e funzionari, durante la quale le proposte venivano illustrate all'imperatore e sottoposte a nuova discussione. Di solito, questi non interveniva, ma, al termine, firmava una «sanzione imperiale» che rendeva operative le scelte fatte.
Anche la decisione di attaccare le basi americane venne assunta da una Conferenza Imperiale. In più occasioni, Hirohito aveva manifestato, per un verso il rammarico che il Patto Tripartito (Italia-Germania-Giappone) stipulato per mantenere la pace venisse utilizzato contro Stati Uniti e Gran Bretagna e per un altro verso il timore che il Giappone potesse trovarsi isolato nell'eventualità, ritenuta non improbabile, che si giungesse in Europa alla pace. La sua profonda opposizione alla prospettiva di attaccare gli Stati Uniti trovava, però, un limite nella sua convinzione di non avere il diritto, come monarca costituzionale, di ribaltare le decisioni dell'esecutivo.
L'opposizione di Hirohito alla guerra, già testimoniata da fonti memorialistiche, trova ora una conferma nelle anticipazioni, appena diffuse in Giappone, di una colossale biografia «ufficiale» dell'imperatore realizzata, con la collaborazione di numerosi studiosi, dall'Imperial Household Agency, un organismo governativo che cura immagine e interessi della casa imperiale giapponese. L'opera - articolata in 61 volumi per complessive 12mila pagine con oltre 3mila documenti inediti, compresi i carteggi dell'imperatore - è il frutto di un quarto di secolo di lavoro e verrà pubblicata nell'arco di cinque anni a partire dal 2015.
Da essa si apprende, per esempio, che già nel luglio 1939 Hirohito si lamentò con il ministro della guerra per il rafforzamento dei legami con la Germania nazista e che due anni dopo, il 31 luglio 1941, si espresse duramente sull'ipotesi di un attacco agli Stati Uniti sostenendo che il Giappone non avrebbe avuto nessuna possibilità di vittoria e aggiungendo che il conflitto si sarebbe rivelato per l'impero del Sol Levante «null'altro che una guerra di autodistruzione». La previsione, come è noto, si realizzò. Hirohito fece comunque valere tutto il proprio prestigio per porre fine al conflitto, dopo il lancio da parte degli americani della bomba atomica e per spingere i militari riluttanti ad accettare la resa incondizionata. Nel radiomessaggio del 15 agosto '45 disse che «in base allo scorrere del tempo e del fato» aveva deciso di «aprire la strada a una grande pace per tutte le generazioni a venire, sopportando l'insopportabile e soffrendo l'insoffribile».
Si presentò al generale Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze di occupazione, per offrirsi come capro espiatorio assumendosi la responsabilità delle decisioni politiche e militari adottate durante la guerra, ma gli americani preferirono evitare che fosse processato come criminale di guerra. Fu una scelta saggia. Hirohito continuò, fino alla morte avvenuta nel 1989, a essere un imperatore, non più di natura divina, e ad apparire, per usare le parole della nuova costituzione, come «simbolo delle Stato e dell'unità del popolo». I giapponesi non smisero di venerarlo.
Indro Montanelli, inviato nel 1951 in Giappone, non riuscì a intervistarlo, ottenne solo un invito a una caccia alle anitre nel parco imperiale, poté scambiare con lui soltanto un inchino da lontano, ma si rese conto che Hirohito era «ancora considerato un'entità al di là delle nubi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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