I videogame? Lo schermo di un'epoca

I videogame? Lo schermo di un'epoca

L'ingresso è lungo il lato di un mercato, al coperto, come tanti ce ne sono a Roma, con le cassette di frutta e verdura in un angolo e la gente che sciama con la busta della spesa e lo sguardo abbassato sullo scontrino. Questo è il mercato di via Sabotino, a due passi da piazza Mazzini, quartiere Prati. È qui che da qualche giorno c'è Vigamus, il primo museo del videogioco in Italia. A vederlo così, con i muri grigi, e il muso dell'alieno di Space Invaders in rosso sul cartellone capisci che è lui. È come ritrovarsi dopo venti o trent'anni in una sala giochi, quelle di una volta, senza pretese, dove nei paesi e nelle città ci si incontrava il pomeriggio, con le lire di metallo in tasca e la speranza di fare qualche partita o di puntare qualche ragazza. La sala giochi come un micromondo, dove improvvisavi il tuo romanzo di formazione con il gusto retrò di infinite partite a biliardino e le fughe più o meno alienate verso un virtuale magari rozzo, ma che allora sembrava il paese delle meraviglie. Te li ricordi i professionisti di Pac-Man o di Tetris, di Supermario o Defender, con la sigaretta appesa al labbro, mai una smorfia, davanti a quel mobile nero dozzinale con video incorporato avevano lo stesso aplomb di un ragioniere. Non c'era nulla in quella stanza che poteva smuoverli. Non la musica, non le risse, non le risate e neppure il passo dondolante di un Lewi's 501 non ancora a vita bassa ma insalsicciato a dovere che si scorgeva in retrospettiva. Nulla. Il ragioniere stava lì con il solo insert coin di tre ore prima, monopolista della pagine dei record, dove firmava con il suo nome solo al primo posto e poi con vezzo da «non mi batterete mai» digitava anonimi AAAA o ABCETRQ, quasi a dire che in certe cose o sei il primo o non sei nulla. Agli altri non restava che turnare in sfide più umane a Hyper Olimpics, a Street Fighter o Kick Off.
Vigamus come tutti i musei non ti fa rivivere quegli anni, ma ti fa risentire un po' di quella atmosfera, anche se nella sala bar manca la nebbia e l'odore di sigarette e le zaffate di fumo. Le luci, però, sono le stesse. Si entra e si scende, come in una cava e i telefonini perdono campo e come un tempo nessuno ti può chiamare se non sei a casa. E allora, a casa, ci stavi poco. Qui trovi la linea darwiniana delle consolle e quasi piangi a toccare il Commodore 64 e guardi con sorpresa il 16, quell'esperimento fallito che arrivò quasi clandestino sul mercato nel 1984. C'è naturalmente lo Spectrum e l'Amiga, ci sono tutti gli Atari, su uno schermo rimbalza la pallina di Pong, in quella sorta di tennis da pallettari dove non si poteva andare a rete e l'unica possibilità era arrotare le palle e aspettare l'errore dell'avversario. C'è il sorriso giallo di Pac-Man, il primo videogame a lasciare il video per una carriera da icona, con la faccia stampata sulle magliette, sui diari, sugli zaini della scuola. C'è il baffuto idraulico italiano di nome Mario, che da attore non protagonista in Donkey Kong diventa con la complicità dei suoi fratelli una stella globale. C'è il dischetto originale dove per la prima volta hanno riversato il programma di Doom, il primo «sparatutto» in first person shooter, dove tu guardi il mondo con gli occhi, e il mirino, del tuo personaggio. Non so se a qualcuno è mai interessata davvero la storia. Sei un marine spaziale deportato su Marte per aver disobbedito all'ordine di sparare a civili disarmati. L'obiettivo come sempre fermare l'invasione dei demoni (o alieni) e ritornare sulla Terra. Come diceva uno degli sviluppatori di Doom, John Carmack: «La trama in un videogioco, è come la trama in un film porno. Ti aspetti che ci sia, ma in fondo non serve a niente». Non è vero e il futuro lo ha dimostrato. Basta pensare a Assassin's Creed. È altrettanto vero però che Doom era tornare a casa, magari dopo un esame all'università, e con il fucile a pompa spappolare quei mostri fottuti.
Qualcuno purtroppo svalvolando di testa ha confuso Marte con la realtà. Ma lo avrebbe fatto lo stesso anche senza Doom. Una curiosità, invece. C'è una scena ne Il colore dei soldi dove Tom Cruise si presenta in una sala biliardo con una stecca personalizzata dentro una valigia. «Che cosa hai lì dentro?», chiedono. La risposta è Doom.
Laggiù nell'angolo c'è finalmente lei. Lara Henshingly Croft, sopracciglia ad arco, occhi leggermente a mandorla, bocca rossa a cuore, una certa somiglianza con Angelina Jolie e va bene una quarta che il pullover azzurro non è mai riuscito a nascondere. Era il 1996 e sul pianeta virtuale arriva un vero sex simbol. È la prima. È la più famosa. Ma a te resta il debole per Jill Valentine di Resident Evil. Stesso anno di nascita, ma meno amazzone, più fragile con tutti quei vampiri in giro e un po' più dolce. Verso la fine trovi il tuo gioco preferito Black&White di Peter Molyneux, prodotto nel 2001 dalla EA Games, la stessa di Fifa. Chi sei, che fai? Semplicemente una divinità in concorrenza con altri dei. Sei il demiurgo di un mondo popolato di tribù (giapponesi, tibetani, greci, aztechi, pellirosse, celti, scandinavi ed egizi). Ogni tua azione influenza il kharma dei tuoi fedeli. Quale è il divertimento? Puoi scegliere se essere buono o cattivo. Tollerante o intransigente. Generoso o avido. La tua morale può basarsi su una sola regola o su una tavola della legge. Ma in fondo sei soltanto un mercante di anime.


Quando esci è buio. Qualcuno ti chiede se ha un senso un museo del videogame. La risposta potrebbe essere molto lunga. Qui basta rispondere con una domanda. Il cinema è arte? Allora lo sono anche i videogiochi. Game over.

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