Gioco di spie

La spia che salvò il D-day

Impenitente, donnaiolo e doppiogiochista, Johnny Jebsen fu la spia che non rivelò alla Gestapo il grande segreto degli Alleati: l'imminente sbarco in Normandia. La società lo bollava come un "fallito morale", eppure quel fallito rese salva la vita a migliaia di uomini

Johnny Jebsen, la storia della spia che salvò il D-day

A volte il coraggio, come la saggezza, si trovano nei posti più inaspettati. È questo il caso di questa storia nella Storia. Del riscatto della vita dissoluta e incorreggibile della spia doppiogiochista che sfidò la sorte fino all’ultimo, in virtù dei suoi ideali antinazisti. Questa è la storia di Johnny Jebsen, nome in codice "Artist". La spia che sopportò ogni tortura pur di non bruciare l’identità dei suoi compagni e tenere al sicuro i segreti delle manovre che furono fondamentali per il successo dell’Operazione Overlord: lo sbarco alleato in Normandia.

Nato ad Amburgo nel 1917, di origini danesi, Johann-Nielsen Jebsen era l’erede di una profittevole società di spedizioni, la Jebsen & Jebsen, la cui sede era stata trasferita in Germania. Spostamento che aveva concesso a lui e alla sua famiglia le comodità della doppia cittadinanza. I genitori, morti quando lui era solo un bambino, lasciarono ben presto al mondo un rampollo brillante nel pensiero e nel sense of humor, quanto impenitente e irreprensibile nella condotta. Innamoratosi dell’Inghilterra e delle campagne dove aveva trascorso molto tempo nell’infanzia, il giovane Jebsen ne adottò modi e linguaggio. Cosa che lo aiuto non poco nel pericoloso compito che decise di attribuirsi allo scoppio del Secondo conflitto mondiale. Quando era poco più di un playboy con una generosa dote familiare che aveva un profondo debole - per non dire idolatria - dei romanzi di Pg Wodehouse, che si era iscritto all'Università di Friburgo per la rinomata bellezza delle donne che la frequentavano. Fu lì che nella metà degli anni Trenta conobbe il suo miglior amico e sodale Duško Popov, il futuro agente doppiogiochista che ispirò Ian Fleming per il suo James Bond.

Una spia nazista al servizio di sua Maestà

Quando la guerra che avrebbe travolto l'Europa deflagrò, Jebsen era ufficiale dei servizi segreti nazisti con amicizie influenti che aveva deciso di coinvolgere i suoi vecchi compagni di università tenendoli “lontani” dal fronte facendoli reclutare dall’Abwehr guidato dall’ammiraglio Canaris. La sua "fedeltà" alla svastica nella veste di spia era strettamente collegata alla volontà di sfuggire al servizio militare obbligatorio che avrebbe dovuto prestare nell'esercito. Gli venne dunque concesso di proseguire le sue normali attività di uomo d'affari quale copertura perfetta per il suo compito di spia, a caccia di informazioni e informatori per Berlino che lo riforniva di immense somme di denaro per i suoi viaggi oltrefrontiera.

Non gli ci volle molto tuttavia a diventare un agente “doppio”. Impegnato in un pericolosissimo gioco che non avrebbe più visto gli inglesi come oggetto dei suoi inganni, bensì il controspionaggio nazista, che si muoveva silenziosamente attraverso gli agenti dell’SD (acronimo di Sicherheitsdienst, il servizio d'intelligence delle SS) e della Gestapo: uomini che diventeranno per lui e il suo sodale Popov i veri “avversari” da ingannare nel crocevia di spie che era diventata Lisbona negli anni '40.

Una “doppia” croce sul fallimento delle spie naziste

Nel corso della guerra, Jebsen, che aveva inizialmente reclutato come spia al servizio di Adolf Hitler il suo vecchio amico Popov, venne a sua volta reclutato per entrare a far parte del cosiddetto “Sistema XX”: una rete di controspionaggio allestita dall’MI5 britannico per “sfruttare le spie che i nazisti avevano infiltrato in Inghilterra” - spie vere o false che fossero - attraverso la diffusione mirata di informazioni false o falsificate. Tutte avevano l’obiettivo di confondere il nemico e distrarlo dai veri obiettivi degli Alleati.

L'Abwehr e lo SD tentarono di infiltrare molte spie in Inghilterra. Impiegando i mezzi canonici come il lancio notturno con il paracadute, l’approdo attraverso gli u-boot, o più semplicemente attraverso il viaggio sotto copertura che vedeva gli agenti passare per Paesi neutrali come la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda. Quella dei Paesi neutrali era la via più semplice, e permetteva a uomini come Jebsen e Popov di trascorrere intere settimane di villeggiatura tra Grand Hotel e casinò - come quello di Estoril - in attesa di ricevere istruzioni e agire per raccogliere le informazioni richieste. Il controspionaggio britannico, tuttavia, riuscì a reclutare la quasi totalità degli agenti inviati dalla Germania. Annullando di fatto ogni genere di informazione proveniente da dietro le linee Alleate, e fornendo all'intelligence della Germania informazioni fasulle appositamente progettate per buona parte del conflitto.

Al termine della guerra fu appurato che tutti gli agenti inviati dai nazisti nel Regno Unito si erano arresi e prestati al doppiogioco, erano stati catturati, o non erano mai esistiti. L’unica eccezione pare essere il caso di una spia che però si era suicidata.

Dal 1943 in poi, Johnny Jebsen era diventato a tutti gli effetti un doppiogiochista al servizio della causa alleata pur continuando a fingere una profonda fedeltà per i tedeschi che non sapevano si stesse arricchendo alcuni ufficiali con dei disdicevoli, e non meno pericolosi, traffici di valuta.

Nel 1944 la copertura di Jebsen iniziò a traballare. Il controspionaggio nutriva dei sospetti sul suo conto proprio mentre i vertici dei servizi segreti tedeschi che gli garantivano sicurezza venivano defenestrati. Assistette in silenzio all'accentrarsi del potere dall'apparato di spionaggio nelle mani dei nazisti dopo una serie di frizioni tra il capo dell'Abwher e il Führer. Fu così che al playboy invischiato nel traffico di valuta venuto a conoscenza di alcuni tra i più importanti segreti degli Alleati: i veri piani dello sbarco in Normandia, l'esistenza di una grande operazione di depistaggio per convincere che gli sbarchi sarebbero arrivati in altri settori (dettagli importantissimi dell'Operazione Fortitude, ndr), ma soprattutto venne a conoscenza della finzione elaborata dal famigerato agente Garbo. Quest'ultimo era considerato la migliore spia dei nazisti, e invece, non era altro che un millantatore, un furbo mitomane spagnolo che aveva creato una rete di spie inesistenti che si arricchiva con i tedeschi ingannandoli per favorire gli Alleati.

All'agente non restava altro che riparare in Inghilterra, come consigliato al suo amico Popov, che in effetti riuscì a salvarsi grazie alle sue soffiate. Per Jebsen però, era ormai troppo tardi. Forse non prese abbastanza seriamente le cose. Sorse, da scapestrato quale era sempre rimasto, con il suo fez e il suo monocolo da snob, decise di andare incontro al suo destino e vedere se la fortuna avesse ancora qualche asso in serbo per lui.

L’arresto di un truffatore

Il 29 aprile del 1944, appena quattro settimane prima della data fissata inizialmente per lo sbarco in Normandia, Jebsen fu catturato a Lisbona dopo una breve colluttazione, messo in un’automobile e condotto nella Francia occupata. Ad architettare l’arresto era stato Aloys Schreiber, capo del controspionaggio tedesco a Lisbona che lo aveva contattato con il pretesto dell'assegnazione di un’onorificenza che Berlino intendeva dare alla “spia” di Amburgo.

Gli aguzzini dell’SD iniziano a torturarlo per estorcergli informazioni e confessioni. Volevano i nomi delle spie che si erano prestate al doppiogioco, conoscere le identità dei reclutatori, conoscere i segreti degli Alleati, tutti i loro piani. Ma "Artist" non si lascia sopraffare dalla paura e dal dolore. Non rivela nessuno dei segreti desiderati dai nazisti. Viene condotto nel quartier generale della Gestapo a Berlino, dove le torture e gli interrogatori proseguono.

Mentre i servizi segreti inglesi sono preoccupati per le rivelazione che la tortura potrebbe estorcere ad un doppiogiochista che da civile valeva poco e nulla agli occhi di un militare di carriera. Eppure Jebsen non parla. La Gestapo, del resto, sembra interessarsi di più alle enormi somme di denaro che Jebsen aveva maneggiato, e agli ufficiali delle SS che aveva corrotto. Non ci vorrà molto prima che a Londra qualcuno si accorga che l’agente Artist non ha vuotato il sacco. Che i segreti dell’Operazione Fortitude erano stati tenuti al sicuro. Che sopportando la tortura e privandosi della possibilità di sfuggirvi vendendo le preziose informazioni di cui era entrato in possesso, Jebsen aveva salvando la vita di decine di migliaia di soldati alleati.

La stoffa di un eroe

Nel luglio del 1944, mentre gli Alleati ormai marciano su Parigi, Jebsen viene trasferito nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Secondo i resoconti, quando arriva, ha le costole rotte ed è mostra evidenti segni di traumi e malnutrizione. Ma non per questo rinuncia a progetti di fuga. Riesce ad inviare messaggi in Inghilterra, ma al War Office nessuno conosce il vero nome dell’agente Artist, e ogni richiesta viene ignorata.

Nel febbraio del 1945 la Gestapo decide di trasferirlo da Sachsenhausen ad un nuovo campo di prigionia. Risale ad allora il suo ultimo avvistamento. Chi verrà liberato, racconterà di un uomo duramente provato, con la camicia intrisa di sangue che più che per le costole rotte, si preoccupava di avere una camicia pulita. Domandandola con elegante distacco dalla realtà, quasi fosse ancora un ospite affezionato del Palacio, il grande hotel di Estoril dove consumava cene sofisticate in compagnia di bellissime attrici e debuttanti in esilio. Il suo destino rimase tuttavia un mistero. Nessuno trovò mai il suo corpo, e per quando qualcuno abbia continuato a nutrire la speranza che da traffichino quale era, fosse riuscito a corrompere guardie e ufficiali con chissà quale somma di denaro nascosto. Per rifarsi una nuova vita dall’altra parte del mondo, magari in attesa che nella vecchia Europa le cose si sistemassero. La triste verità è che probabilmente finì come tanti altri in una fossa comune. Il 17 febbraio 1950 venne dichiarato legalmente morto.

Ciò che stupisce ancora, è che Jebsen sapeva, e per questo avrebbe potuto confessare tutto. Tradendo gli Alleati e il suo amico Popov, scambiando la sua vita con il segreto dell’invasione dell’Europa. Del resto da uno uomo così disonesto, un doppiogiochista con un’esistenza tanto frivola alle spalle, c’era da aspettarselo. Eppure non disse mai una parola alla Gestapo. Aveva una moglie e un figlio da rivedere a casa. Senza contare tutte le sue amanti. Ma né in Francia, né a Berlino, né nel campo di concentramento di Sachsenhausen rivelò mai nulla ai nazisti che non aveva mai tollerato. Nemmeno ai tempi di Friburgo. Quando indossava camice e cravatte della seta più fine, e al volante di macchine di grossa cilindrata correva da un locale all’altro. A caccia di quelle emozioni semplici che scandiscono una vita dissoluta. Certo allora non avrebbe mai pensato che sarebbe diventato un eroe agli occhi di qualcuno. Eppure lo abbiamo detto all’inizio: il coraggio, come la saggezza, spesso si celano nei posti più inaspettati.

Alla fine della guerra il suo vecchio amico Popov, rassegnandosi alla sua morte pur non trovandone pace, andò a cercare Aloys Schreiber, per vendicarlo. Ma questi fatti preferirei che il lettore li appurasse, ove volesse, attraverso lo parole dello stesso Popov; che ne scrive dettagliatamente le suo libro Spia contro spia. Se capitate ad Amburgo, al numero 7 di Hartungstraße troverete una pietra d’inciampo che porta il nome di Jebsen e l'ultimo luogo dove è stato visto in vita, il lager di Sachsenhausen. Se capitate ad Estoril invece, nel sontuoso Hotel Palacio troverete quello che in onore di quei giorni è stato ribattezzato “Bar delle spie”.

Bevete un bicchiere alla sua.

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