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Dalla Jugoslavia all'Italia: il ruolo dei partigiani titini nella Resistenza italiana

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia 2020)

Dalla Jugoslavia all'Italia: il ruolo dei partigiani titini nella Resistenza italiana

Alla data della comunicazione dell’Armistizio con gli anglo-americani sul suolo italiano erano internati migliaia di prigionieri di guerra e di civili di paesi nemici. Fra loro molti slavi caduti nelle mani delle forze dell’Asse dopo la sconfitta del Regno di Jugoslavia nel ’41 e fuggiti inseguito al caos generato dalle vicende armistiziali. Soli in una nazione nemica, in un territorio sconosciuto e ormai zona di guerra, nel tentativo di sopravvivere in diversi si unirono alla Resistenza Italiana, che iniziava a nascere proprio nell’autunno del 1943.

L’esperienza maturata nell’Esercito Nazionale di Liberazione della Jugoslavia rappresentò una risorsa per quelle bande italiane i cui elementi erano spesso sì motivati ma privi di una sufficiente preparazione al combattimento. Tuttavia, l’inquadramento ideologico degli jugoslavi è stato talvolta elemento di attrito (specie con le formazioni costituite da militari del disciolto Regio Esercito) sul trattamento dei prigionieri, delle spie o presunte tali, circa l’obbedienza al CLN e al Comando supremo di Brindisi e sull’opportunità di evitare d’esporre la popolazione ad inutili rappresaglie.

Stranieri in un paese che li aveva catturati e deportati, erano infatti più interessati a combattere i tedeschi nell’ottica di tornare presto alle loro case, piuttosto che alla sorte dei civili italiani. Ulteriore elemento di scontro con le anime diverse della Resistenza italiana si materializzò nelle zone di confine. Qui, l’acceso nazionalismo del IX Corpus sloveno e l’atteggiamento ambiguo (quando non accomodante) del Partito comunista italiano, provocarono una profonda frattura con quelle anime del movimento partigiano pronte invece a difendere l’integrità del territorio nazionale da qualunque nemico, tedesco o slavo che fosse.

Il nazionalsimo della Jugoslavia

Ed è proprio il tema del nazionalismo che l’Autore approfondisce nel suo studio. Secondo Petrelli, infatti, il comunismo fu un "collante" sociale, mentre il vero strumento che contribuì all’ascesa, prima militare e poi politica, di Tito fu il nazionalismo. La precedente esperienza del Regno di Jugoslavia aveva infatti palesato la necessità di un elemento capace di tenere insieme popoli tanto diversi fra loro ed in secolare conflittualità, di fare in modo che essi si riconoscessero in un’unica nazione nata dalla lotta contro i nemici esterni (Asse) e interni.

Vale a dire quelle minoranze perseguitate durante e dopo il conflitto. Abbandonando dunque la teoria dello scontro ideologico, coltivata per decenni da una storiografia non sempre obiettiva, lo studio cerca anche di analizzare il progetto politico di Josip Broz e l’eredità da esso lasciata dopo la morte del dittatore.

I partigiani italiani e quelli titini

Il libro propone altresì un approfondimento sul tema della Resistenza, tentando di spiegare perché parlare di foibe e di esodo sovente provochi la reazione di alcuni settori della politica, dell’associazionismo e del mondo della cultura che ritengono si tratti di attacco alla Resistenza.

Come sopra citato, la resistenza jugoslava non combatteva per l’Italia né si può pretendere di creare un collegamento fra i partigiani titini e quelli italiani che vada oltre la collaborazione fra due realtà combattenti. Le finalità dei titini e dei partigiani italiani erano in effetti diverse, come diversi erano gli organi di comando: nel caso dell’Italia il Comitato Liberazione Nazionale (espressione dei partiti che componevano i Governi Badoglio e Bonomi) e del Comando Supremo di Brindisi; nel caso degli jugoslavi l’obbedienza era a Tito.

La pretesa di studiare una guerra mondiale sotto il mero profilo ideologico ha causato, nel corso dei decenni, molta confusione sulla guerra partigiana al di qua e al di là del confine italiano. C’è da dire innanzitutto che la "resistenza" , come noi la chiamiamo, è una strategia militare che è sempre esistita: sconfitti sul campo, i soldati si battono dietro le linee con azioni rapide contro un nemico numericamente maggiore. I grandi imperi dell’età antica e moderna, nonché gli imperi coloniali avevano sperimentato sulla loro pelle la pericolosità delle azioni di incursione, saccheggio, guerriglia condotte da popoli che non accettavano la resa né l’autorità imposta dai vincitori.

Una "guerra irregolare" come era chiamata al tempo, già intrapresa dalla Polonia, dalla Francia e dalla Russia fra il 1939 e il 1941, poi anche dall’Italia. Il Fronte Militare Clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, sorto all’indomani della caduta di Roma, né è esempio importante. Anche la resistenza "politica" si organizza a partire dal 1943, ma per le prime, importanti azioni bisognerà attendere il 1944.

La resistenza "politica"

Soldati da una parte, dunque, e civili dall’altra. E non sempre in accordo fra loro. Il SIM - Servizio Informazioni Militare infiltrerà agenti operativi nel Nord Italia sino alla fine della guerra, così come il SOE britannico (Special Operations Executive) addestrerà ed invierà oltre le linee personale sia inglese sia italiano, talvolta in collaborazione con le forze partigiane locali, altre in pieno disaccordo.

Malgrado, infatti, la parola d’ordine dei partiti del CLN fosse "cooperazione", nessuno di loro perse di vista la prospettiva di conquistare un peso nella scena politica nazionale del dopoguerra. E’ così che al termine del conflitto ciascuno rivendicò un ruolo nella guerra di liberazione, nonostante quest’ultima fosse stata ben poco determinante alla vittoria degli Alleati.

Già, perché oltre a non essere stata tenuta in considerazione come impegno di un popolo contro i tedeschi al Trattato di Pace (quando l’Italia fu umiliata e trattata come nazione sconfitta), la lotta partigiana aveva anche palesato le profonde divisioni dell’Italia che si preparava a costruire la Repubblica nonché la paura, da parte delle realtà liberali e conservatori, nei confronti dei comunisti.

Nel 1947, ad esempio, è proprio uno dei dirigenti del CLN, il generale Raffaele Cadorna, a costituire in seno al Corpo Volontari della Libertà una unità di intelligence con il compito di monitorare i comunisti in vista delle elezioni del 1948.

Non solo, la stessa Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), fondata nel ’45, fu soggetta a scissioni interne sin dal 1947: in quell’anno, il vice Presidente Enrico Mattei ne uscì per fondare la sua Associazione Partigiani Cristiani e nel ’48 la componente di Ferruccio Parri la abbandonò per costituire una propria sigla.

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