L'Italia cambiata a colpi di scoop

Dal bandito Giuliano agli scandali del Vaticano. Così il tanto criticato giornalismo ha migliorato il Paese

La redazione del quotidiano Le Monde
La redazione del quotidiano Le Monde

Luigi Locatelli, con un articolo strepitoso sullo spogliarello di Aichè Nanà al «Rugantino», uscito sul Giorno il 6 novembre 1958, spostò con 60 righe il comune senso del pudore e anticipò di due anni La dolce vita. Andrea Purgatori, con un'inchiesta da manuale su Ustica, nell'84, con una gragnuola di pezzi infranse segreti, ragion di Stato e muri di gomma. Vittorio Feltri, nella calda estate del '95, con una delle più devastanti campagne della storia del giornalismo contro la casta dei privilegiati, passata alle cronache col nome di «Affittopoli», sfrattò da case concesse a prezzi di favore fior di politici e di sindacalisti (con risparmio del contribuente e guadagno del suo quotidiano di 30mila copie). Mentre Marco Lillo, nel febbraio scorso, sul Fatto quotidiano svelò l'ipotesi, girata in Vaticano, di un complotto per eliminare il Papa. Una notizia ripresa da tutti i media del mondo.
Scoop, scoopponi, finti scoop, inchieste-bomba, esclusive. È giornalismo. Dalla morte del bandito Giuliano al caso Ruby, non c'è evento che ha cambiato la storia d'Italia che non sia passato dalle - prime - pagine dei giornali. Piaccia o non piaccia, è la stampa che fa, e che disfa, la politica. That's the press, baby! «E non ci puoi fare niente», diceva Humphrey Bogart.
L'America ha il Watergate, simbolo quotidiano ed eterno dell'inchiesta-perfetta, del watchdog journalism, del Quarto Potere che ambisce a essere primus, inter pares. E noi, in Italia, Paese dove il potere della stampa è di solito da intendersi nel senso del Potere politico, industriale e bancario che possiede la stampa, che cosa abbiamo, invece? Quali sono i nostri Watergate che hanno fatto tremate i Palazzi e i palazzinari?
Chi critica i giornali e il giornalismo, dando per morto quello di carta, pensando che solo il Web ci salverà, si dovrà ricredere sfogliando l'antologia curata e commentata da Giangiacomo Schiavi dal titolo Scoop! Cronache e giornalisti da prima pagina (Carte Scoperte): una bibbia laica delle grandi firme, a suo modo l'accademia della stampa, il Who's Who delle penne da riporto. I segugi della cronaca sono tutti qui dentro. E dimostrano che, cassandre a parte, il buon giornalismo anche nel nostro servile, affaristico e misterioso Paese c'è stato, c'è ancora, e continuerà a esserci. È vero, «tra giochi sporchi e ipocrisia la stampa ha perso credibilità. La gente si fida meno dei giornali. È triste - come scrive Schiavi, vicedirettore del Corriere della sera - sapere che certi scoop sono usati per regolare i conti sospesi nella politica o nella società». Ma. C'è un ma. C'è che «nella crisi al buio che ci riguarda, certi colleghi hanno dimostrato che siamo ancora vivi e indispensabili. Il loro lavoro è entusiasmante. Ci possiamo ancora fidare».
Eccoli, i colleghi di ieri e di oggi dei quali ci possiamo fidare. Sono tutti qui dentro, in un libro che è sì la storia del nostro giornalismo, ma è soprattutto la storia d'Italia, due cose che si sovrappongono. Passò alla Storia, in entrambi i sensi, il pezzo uscito sul Corriere d'Informazione il 6-7 dicembre 1946 in cui Dino Buzzati racconta come Sono entrato nella casa della strage, ossia l'appartamentino dove Rina Fort massacrò la moglie e i tre figli del suo amante, in via San Gregorio a Milano. Ma qui, in effetti, siamo più dalle parti della letteratura che della cronaca. C'è Indro Montanelli, il primo a raccontare nell'Ungheria del '56 che gli insorti non erano ribelli «borghesi», ma comunisti antistalinisti. C'è Manlio Cancogni, col pezzo e il titolo più celebre della stampa patria, Capitale corrotta = nazione infetta, sull'Espresso del 22 gennaio 1956. C'è Lino Jannuzzi che denuncia il «Piano Solo» del generale De Lorenzo. C'è l'intervista memorabile sul Corriere del 17 febbraio 1977 di Gianpaolo Pansa al sindaco di Seveso, che vede morire ogni giorno la sua città divorata dalla diossina. Ci sono Walter Tobagi, Paolo Liguori, Maria Grazia Cutuli. C'è il finto-scoop più famoso della storia, quello in cui Francesco Gasparini, su Visto del 28 marzo 1959, sbattè il mostro di Loch Ness in prima pagina, rimbalzando persino sugli stessi giornali inglesi e poi risolvendosi in bufala. C'è l'inchiesta di Gian Marco Chiocci su Fini e la casa di Montecarlo. C'è Gianluigi Nuzzi e l'intercettazione più devastante della Seconda Repubblica (Fassino a Consorte: «E allora, siamo padroni di una banca?»).


La sottile linea tipografica tra scoop e macchina del fango: quando finisce la seconda e inizia il primo; e viceversa?
E c'è anche Alessandro Sallusti, oggi antipatico direttore del Giornale, ieri cronista d'assalto del Corriere, con l'inchiesta su «Musocco, il Bronx di Milano» (1991) e con lo scoop sul latitante Giovanni Manzi, il presidente socialista della Sea (1993). Sallusti, insieme a Fabrizio Gatti e Goffredo Buccini, è l'unico in questo libro-gotha del giornalismo italiano a essere citato con due pezzi. Strano. È anche l'unico che rischia di finire in carcere.

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