Date Telecom ai brianzoli

Tanto maggiore è l’interesse dello Stato e della politica alle sorti di un’industria e tanto peggio essa è destinata a fare. Il caso Telecom Italia è eclatante. Non c’è politico che non abbia detto la sua sul gruppo telefonico

Cerchiamo di spiegare quanto l’Italia deve a quegli «evasori dei brianzoli» e quanto può invece infischiarsene di chi comanderà in Telecom. E soprattutto perché mettere in relazione gli uni con gli altri. Il nostro paragone un po' freak ci fornisce qualche spunto sul ruolo in economia dello Stato. Passiamo subito alla conclusione: tanto maggiore è l’interesse dello Stato e della politica alle sorti di un’industria e tanto peggio essa è destinata a fare. Il caso Telecom Italia è eclatante.

Non c’è politico che non abbia detto la sua sul gruppo telefonico: deve rimanere italiano, serve alla ricerca, aboliamo le scatole cinesi (questioni di diritto societario), non si perda un «asset» del Paese, la rete telefonica è strategica, i suoi manager sono troppo pagati, e i suoi proprietari troppo indebitati. Insomma Telecom è l’argomento preferito della chiacchierada salottoe della trama politica. In fondo non possiamo negare questi appetiti: si tratta di una società che fattura 32 miliardi l’anno e impiega 80mila dipendenti in giro per il mondo. Dall’altra parte dell’universo ci sonoi nostri «brianzoli» che da anni si sono messia produrre mobili. E che proprio ieri hanno chiuso la loro fiera di Milano.

Sono poco meno di 80mila imprese, ma che messe insieme valgono più della Telecom: 38 miliardi di euro è stato il loro fatturato in crescita del 2006. Danno lavoro a 410mila italiani e un euro ogni tre di fatturato lo realizzano all’estero (esportazioni). Negli ultimi anni hanno patito l’aumento delle materie prime, e poi quello dell’euro e poi, come è ovvio, l’arrivo dei cinesi. Eppure sono ancora là che dettano legge al mondo. Non come Meucci, che abbiamo riscoperto in questi giorni per difendere l’italianità della Telecom. E non solo sulle orme dei nostri grandi designer come Magistretti, Castiglioni, Caccia, Mari e Sottsass, ma anche inventando nuovi giovani maestri come Piero Lissoni, Rodolfo Dordoni e Ferruccio Laviani. Il nostro mobile è un successo silenzioso, ma con dei numeri da far spavento

Al salone milanese, la più bella mostra che ci sia in Italia, sono arrivati 270mila visitatori, di cui il 60 per cento straniero. Nulla, neanche il turismo, attira con queste percentuali in Italia. Il segreto è che lo Stato e i governi se ne stanno alla larga. Kartell, Frau, Moroso, Bisazza, Fontana Arte, Flos e Artemide, Moltenie Minotti, Porro e Sawaja non chiedono nulla alle casse dello Stato. Sono proiettati in una dimensione internazionale, di mercato vero. Si cercano i designer più bravi: gli italiani e gli stranieri da Arad a Yoshioka, da Wanders a Urquiola. Se ne infischiano della italianità, ma sono i più italiani di tutti. Rispettano le tradizioni di un passato generoso, ma hanno capito che non possono rischiare di rimanere indietro: come gli svedesi che ancora ci ripropongono la grande, ma ormai andata, scuola degli anni 50. E rischiano e talvolta cadono.

Cappellini,uno dei geni del nostro mobile, è caduto e ha saputo reinventarsi con Poltrona Frau e il fondo di Montezemolo. Molti di loro ancora ridono di quella ridicola e inutilizzata sovvenzione statale che avrebbedovuto incentivare la «digitalizzazione» del settore: come dire legare un bene durevole come un mobile ad un mercato in cambiamento velocissimo come quello digitale. Una follia da burocrati. O la proposta, proprio di ieri, del ministro Melandri di detassare «i creativi». Bene, buona idea: adesso già che ci siamo inventiamoci anche un tesserino e un albo del creativo.

Piuttosto si riducano le imposte su tutte le imprese. Il mobile, il suo successo e lo spettacolo penoso di una politica che si occupa di telecomunicazioni sono le facce di uno Stato che quando si impiccia degli affari nostri, distrugge gli affari migliori.

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