Cronache

Il delitto Mollicone?  E' ancora giustizia a tempo scaduto

Dopo via Poma e l’Olgiata, un’altra indagine a scoppio ritardato. L’omicidio di Serena risale al 2001 e solo ora spuntano cinque indagati. Giallo risolto? No, ci sono due piste diverse. Quindi si rischia di infangare degli innocenti

Il delitto Mollicone?   
E' ancora giustizia  
a tempo scaduto

Ci si potrebbe consolare con un «meglio tardi che mai». Eppure questa «giustizia» a scoppio ritardato lascia perplessi, non rassicura, anzi un poco spaventa. Anche se talvolta funziona. Possibile ci voglia tanto tempo, che le stesse identiche persone già finite nel mirino degli investigatori ai tempi che furono, interrogate «sezionate», spiate, eppoi in qualche modo «assolte» si ritrovino sul banco degli imputati dieci anni dopo? Quanto tempo serve alla verità? Quanto agli investigatori?

Paese singolare il nostro. Non si risolvono i gialli del presente, si finisce spesso e volentieri con processi indiziari, facce sporcate e sentenze pilatesche. In compenso si rispolverano storie quasi dimenticate, casi che sembravano destinati all’oblio di un fascicolo con la voce «insoluto». Per gridare, con ieriatica solennità: vedete? la giustizia funziona. È successo con il delitto dell’Olgiata. La contessa morta e dieci anni dopo il cameriere che confessa. Incastrato dal Dna.

A Brembate, invece, a sette mesi dal suo omicidio la piccola Yara aspetta ancora giustizia. Dell’assassino di Chiara Poggi, massacrata nella sua villa di Garlasco in un’afosa mattina d’agosto- correva l’anno 2007-, a parte i sospetti sul fidanzato Alberto Stasi (assolto in primo grado), non vi è traccia. Nemmeno un’ipotesi, una pista alternativa. L’assassinio di Melania Rea, la moglie del soldato, due mesi dopo, è un caso aperto. Oggi, 27 giugno 2011, eccoci qua, a raccontare di Serena Mollicone. Lei sparì il primo giugno 2001 mentre andava dal dentista. Aveva diciott’anni. Fu ritrovata due giorni dopo in un boschetto vicino ad Arce (in Ciociaria). Le mani e i piedi legati; la testa infilata in un sacchetto di plastica: era morta per asfissia, dopo essere stata colpita alla testa. Una lenta, terribile agonia, scrissero i medici nei referti.

Indagini, arresti, quello del padre, Guglielmo, maestro elementare e titolare di una cartoleria ad Arce, poi rilasciato nemmeno senza tante scuse; due anni dopo quello del carrozziere Carmine Belli poi scagionato dopo un processo che vide oltre 200 persone a testimoniare. Quindi il ricorso dell’accusa. Nuovo dibattimento, altra assoluzione.

Ora, in un sol colpo, ecco spuntare cinque indagati, neppure troppo freschi. Sembra che qualche Dna, non si capisce bene perché scoperto così tardivamente, in qualche modo li accusi. Evviva. Se non fosse che c’è un ma. I cinque sotto accusa- l’ex fidanzato della ragazza Michele Fioretti e sua madre Rosina, l’ex maresciallo capo della stazione locale Franco Mottola, il figlio Marco- secondo i pm non sono sospettati di aver ucciso la ragazza in concorso fra loro. No, le loro iscrizioni sul registro degli indagati rappresenterebbero due piste alternative, una che ruota intorno all’ex della 18enne, l’altra intorno alla caserma dei carabinieri di Arce.

Insomma due ipotesi diverse, da dimostrare e soprattutto inconciliabili. Il che tradotto significa: di certo nel fango finiscono, a rigor di logica, anche degli innocenti. Per la cronaca: un militare, Santino Tuzzi, di 50 anni, brigadiere ascoltato come persona informata dei fatti, si ammazzò sparandosi un colpo al petto, nell’aprile del 2008. Così come non pensare a Simonetta Cesaroni, a Pietrino Vanacore, il portinaio di via Poma morto con il più strano dei suicidi poco prima del processo che vent’anni dopo avrebbe, secondo la procura romana, risolto il caso.

Di mezzo c’è sempre il Dna a inchiodare assassini vecchi e nuovi. A volte serve.

Ma, direbbe qualcuno, non sempre «c’azzecca».

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