Maestro inarrivabile di liberalismo, e perciò naturalmente antifascista, Nicola Matteucci non ha mai amato l'antifascismo.
Già nella prima metà del 1957 era poco più che trentenne la rivista che aveva fondato, "il Mulino", sottolineava l'esigenza che il fascismo fosse superato. "Non si tratta di restaurare il modello perduto, del quale importa soltanto far la storia", leggiamo nell'editoriale del gennaio di quell'anno, "né di riprendere una rivoluzione fallita e tradita, ma di lavorare per lo stato democratico esistente, di radicarlo nelle più intime fibre della società". "Non ha più senso alcuno continuare a parlare di difesa della democrazia", proseguiva l'articolo, "quando si tratta di servirla ogni giorno: oggi non c'è nessun nemico che abbia la forza di minacciarla, fuor che la debolezza, la disonestà e l'incertezza di ognuno".
La rivista sarebbe tornata sull'argomento qualche mese dopo con un secondo editoriale, significativamente intitolato "La misura del nostro compito: il postfascismo".
Già allora, Matteucci si rendeva conto del rischio che l'antifascismo, invece che farsi punto di riferimento comune all'intera nazione e strumento di legittimazione della giovane democrazia, finisse monopolizzato da una o più parti politiche. E che queste lo utilizzassero per occupare simbolicamente la Repubblica e arrogarsi il diritto di decidere, sulla base delle proprie priorità e dei propri interessi, chi fosse legittimato a entrarvi e chi dovesse esserne escluso.
Era una visione per certi versi profetica, la sua: proprio dall'inizio del decennio successivo, con gli eventi del luglio 1960 prima, e poi con la nascita della nuova maggioranza di centro sinistra, l'antifascismo si sarebbe fatto sempre più partigiano e, al contempo, sarebbe diventato politicamente sempre più rilevante.
Avrebbe preso forma così la Repubblica antifascista dei partiti, una costruzione politica e culturale che avrebbe raggiunto lo zenit alla fine degli anni Settanta, con la stagione della solidarietà nazionale, e sarebbe poi giunta al collasso nei primi anni Novanta.
In questa Repubblica, Nicola
Matteucci sarebbe rimasto sempre culturalmente all'opposizione, e non avrebbe smesso di reclamare una democrazia che consegnasse il proprio passato alla storia e si radicasse nella condivisione profonda dei valori liberali.