"Don Chisciotte" e i mulini che macinano la crisi

Lo scrittore nazionalista spagnolo vide nell'opera di Cervantes il simbolo della fine dei sogni imperiali

"Don Chisciotte" e i mulini che macinano la crisi

Ramiro de Maeztu, di cui ora esce per Rubbettino Gloria e decadenza. Una interpretazione del Don Chisciotte (pagg. 130, euro 16), molto ben tradotta e annotata da Sebastiano Leotta, al quale si deve anche una puntuale introduzione critico-biografica, è un nome pressoché sconosciuto in Italia, eccezion fatta per gli studi pionieristici che gli dedicò, più di mezzo secolo fa, Giovanni Allegra, un ispanista tanto brillante quanto controcorrente e purtroppo morto a poco più di cinquant'anni. Le ragioni di questo silenzio sono soprattutto legate al fatto che de Maeztu (1874-1936), uno dei protagonisti della cosiddetta «Generazione del '98» e il giornalista che più aveva contribuito a sprovincializzare e a rinnovare la stampa spagnola, a partire dagli anni Venti si era spostato su posizioni cattolico-monarchiche, sancite prima dal suo appoggio alla dittatura del generale Primo de Rivera e poi negli anni Trenta dalla sua tenace avversione alla neonata repubblica.

In lui non c'era nulla di fascista, incarnato allora dalla Falange di José Antonio Primo de Rivera e Ledesma Ramos, ma un fortissimo conservatorismo con venature reazionarie che faceva del recupero della grandezza passata, la Spagna eterna del sangue, della croce e della spada, l'unico antidoto contro la disintegrazione nazionale il cui sopraggiungere vede profilarsi minaccioso all'orizzonte.

Nel luglio del 1936, dopo l'alzamiento di Francisco Franco, de Maeztu, che si trovava a Madrid, rimasta nelle mani del legittimo governo repubblicano, fu arrestato, condotto in carcere e, pochi mesi dopo, fucilato, una morte se non cercata di sicuro preconizzata, perché per le sue idee era disposto a morire, così come era disposto a uccidere quelli che le negavano, la guerra civile come una crociata fra il Bene e il Male... La fucilazione lo trasformò in un martire del nazionalismo franchista, che fuori della Spagna però, a partire dal secondo dopoguerra si rivelò una vera e propria pietra tombale quanto alle sue qualità di scrittore. Che erano notevoli.

Gloria e decadenza è il titolo italiano di quello che in spagnolo è più semplicemente Don Quijote o el amor, il primo dei tre saggi che componevano la raccolta Don Quijote, Don Juan y la Celestina: ensayos en simpatia, uscito nel 1926 e che riprendeva, affinava e in parte correggeva quanto, in concomitanza con il tricentenario cervantino del 1905 egli aveva già messo su carta, ovvero il Chisciotte come libro della crisi e della decadenza spagnola, «l'incarnazione - nota Leotta - della sua impotenza storica».

Per capire il capolavoro di Cervantes, scrive de Maeztu, bisogna tenere presenti alcuni aspetti della biografia del suo autore e della nazione a cui apparteneva: «Quando fu pubblicato il romanzo che celebrava la quiete, la Spagna era il più grande regno sulla terra. L'Amleto è la tragedia dell'Inghilterra; il Chisciotte il libro della civiltà spagnola. Queste due opere hanno rappresentato il destino di due popoli. L'Inghilterra ha conquistato un impero; la Spagna ha perduto il suo». Nel momento in cui lo scrittore concepì questa sua opera, nota ancora de Maeztu, «Cervantes era un uomo stanco, e non lo era di meno la nazione spagnola». Basta vedere quello che è successo prima per rendersene conto. «Da ogni casa spagnola erano venuti fuori un monaco o un soldato, e qualche volta un monaco e un soldato. Nella stessa persona. Santa Teresa aveva visto i suoi fratelli andare nel nuovo mondo e, gran lettrice di libri di cavalleria, aveva sognato di viaggiare per il mondo. Tutto il XVI secolo fu per la Spagna un'esplosione di energia». È una nazione che ha completato la liberazione del territorio nazionale, espulso Mori ed ebrei, dato vita e condotto a termine l'epopea delle scoperte, portato vittoriosamente i suoi eserciti nelle Fiandre, in Germania, in Italia, in Francia, nel Mediterraneo...

È per certi versi una lotta senza fine, dietro la quale c'è Lepanto, la compagnia di Gesù, la Controriforma e insomma la difesa armata del Cattolicesimo sentita come più importante e irrinunciabile degli stessi interessi della Spagna. Invano le Cortes e Filippo II, ancora reggente, sottolineano all'imperatore Filippo I che la pressione fiscale imposta dalla guerra aggrava irrimediabilmente la povertà del Paese, lo esaurisce, lo spopola. Salito a sua volta al trono, Filippo II continuerà la strada paterna, fino a quell'Armada Invencible il cui naufragio simboleggia la fine di un sogno.

Di quella Spagna che corre verso la catastrofe, de Maeztu coglie un riflesso nei quadri di El Greco. «Egli comprese che quegli uomini, fisicamente non eccezionali, erano animati da una spiritualità straordinaria che si poteva esprimere solo con una pittura inaudita. Il Greco rese con la luce l'ideale che incendiava quei corpi. Concepiva la luce come una sostanza che (...) trasforma gli uomini in fiamme, che nel loro fuoco si divinizzano e si consumano».

A questa corsa verso la gloria e che come risultato finale ha la decadenza, ovvero la sconfitta e il sogno che si infrange, Cervantes diede tutto sé stesso e ha ragione quando scrive che «per me solo nacque Don Chisciotte, ed io per lui; egli ha saputo agire e io scrivere; noi soli siamo due in uno». Nato nel 1547, a vent'anni è già poeta e già soldato, nel Tercio di Miguel de Moncada; a ventiquattro è già alla battaglia di Lepanto, nome simbolo per la cristianità, ferito al petto e alla mano sinistra, e poi alla presa di Tunisi; a 27 è già prigioniero e in carcere, ad Algeri: la nave che lo riportava in patria è stata assalita dai pirati Mori, la lettera di Don Giovanni d'Austria in cui si tessevano le sue lodi e che portava con sé, fa loro credere che si tratti di una personalità importante per cui chiedere un riscatto altrettanto importante.

Nei cinque anni di prigionia, Cervantes resta un soldato e un hidalgo: complotta contro il nemico, cerca di evadere, si prende colpe non sue. Quando finalmente torna in patria, crede che la patria lo ricompenserà. «In realtà nulla accade, si rende conto che non c'è più nulla da aspettarsi dalla corte e dall'esercito». Da allora in poi, riassume de Maeztu, «l'esistenza di Cervantes fu un rosario di avversità» e non è un caso che comincerà a pensare al suo capolavoro mentre è in carcere a Madrid, questa volta per debiti...

Tutto ciò che è essenziale in Don Chisciotte, scrive de Maeztu, «si trova già se si sovrappone la figura di quel giovane coraggioso che sogna grandi imprese che è Cervantes alla figura di un vecchio malandato, disilluso e stanco che è ancora lo stesso Cervantes». Ma l'uno e l'altro, contemporaneamente, sono anche la Spagna, una Spagna spossata che si sente rappresentata in quel libro proprio perché si sente tale: «Le disavventure dell'ingegnoso hidalgo resero meno duro il crepuscolo. La Spagna rise di quelle azioni che non poteva più intraprendere (...).Il capolavoro di Cervantes addolcì la fine, adesso si poteva riposare in pace, almeno finché il resto del mondo ce lo avrebbe permesso».

Libro nazionale e insieme libro universale, il Don Chisciotte continua nei secoli a essere chiosato e interpretato, a ha ragione de Maeztu quando al termine del suo saggio si trova ad osservare che «in quanto spagnoli non siamo in realtà più donchisciotteschi di altri popoli,

però lo siamo stati nel nostro glorioso passato e lo siamo ancora nel rimpianto di esserlo stati, e se un giorno soffriremo del nostro chisciottismo sarà perché abbiamo lasciato solo Don Chisciotte alla gogna del ridicolo».

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