Vorrei parlare ancora una volta, e ne domando scusa, dei due fratelli Gianluca e Ilaria Palummeri e del loro amico-fidanzato-assassino Riccardo Bianchi. La loro storia, sarà la fragilità che avanza con gli anni, è di quelle che mettono voglia di piangere senza smettere.
Per chi da giovane non è stato abbastanza cattivo da meritare una maturità da acuto analista i delitti come questo sono i più duri da digerire. Per chi da giovane non è stato abbastanza indifferente a tutto da meritare una maturità piena di morbosa ed egoista curiosità è in casi come questo - o come quello di Luca Massari, il tassista ucciso a Milano nello scorso autunno per aver investito un cane - che la capacità di far discorsi tocca il suo limite.
Perché della sociologia e della psicologia e della sociopsicologia in questo momento non dovrebbe importarci un fico secco: l'ambiente sociale di questi ragazzi, le abitudini, l'alcol, la vita disordinata, la scuola assente e latitante, la madre morta, l'impossibile convivenza col padre, e così via. Per favore, lasciamoli da parte per un momento.
Tutti gli strumenti di analisi devono tacere per un istante, per un prezioso istante, per un prezioso e insostituibile «minuto di silenzio» durante il quale - sociologi o parrucchieri - sostare, ciascuno per sé, davanti a questi due poveri morti, alle loro povere vite stroncate, ai loro cadaveri stesi nell'obitorio e poi dentro la bara: con un pensiero, magari, per chi li ha uccisi, che è così uguale a loro da lasciar pensare che i ruoli si sarebbero potuti anche invertire, ma che - a differenza dei fratelli Palummeri - è ancora vivo. E questo non è un bene da poco.
Sono le loro vite non compiute, le loro vite non sbocciate a darmi dolore per loro, per me stesso, per la mia città, per l'Italia. Nella morte di Falcone, di Marco Biagi, di Pier Paolo Pasolini c'è qualcosa che si compie, un'umanità realizzata. La fine è tragica e odiosa, chi è stato ucciso avrebbe sicuramente potuto fare ancora molto mentre non è detto che quei ragazzi avrebbero mai fatto qualcosa d'importante.
Ma il vero scandalo non è la vita che muore, ma piuttosto la vita che non sorge, che non sboccia. Perfino in Eluana Englaro c'era un'ombra di compimento, un'ombra di Destino (poi cancellata con un gesto chiacchierone). Qui, invece, se di Destino possiamo parlare è soltanto per ipotesi.
I discorsi non ci servono. Le analisi non ci servono. Le spiegazioni non ci servono. Gli esperti non ci servono. Gianluca e Ilaria sono qui, nell'obitorio, morti. E non diciamo che è anche colpa nostra, perché lo diciamo sempre e non è mai servito a niente. Non è colpa nostra. Non è questo il punto. E non c'entrano nemmeno i modelli, non c'entra facebook, non c'entrano le vuote giornate di questi ragazzi, anche se è purtroppo vero che intere giornate, mesi, anni trascorsi senza che nessuno ti proponga niente di buono per te possono produrre una voragine nel cuore di un ragazzo.
Quante cose ho pensato, non appena ho letto la notizia! Dalla facile considerazione che si trattava di una delle solite storie di alcol e droga finita, stavolta, in tragedia; fino alla supposizione maligna che Riccardo si fosse liberato di due persone scomode magari perché erano a conoscenza di un piccolo segreto infamante che lo riguardava.
Ma è anche probabile che si sia affacciata per un istante nella mente di Riccardo la consapevolezza che a gente come lui e come i suoi amici la vita non riservava più niente, che era tutta terra bruciata, non solo dietro ma anche davanti, e che la vita - questa unica vita che abbiamo ricevuto da nostro padre e nostra madre - è soltanto uno stupido inferno.
Quello che mi fa star male è che non potrò più abbracciare Gianluca e Ilaria per dire loro: non è vero, non è così, e per testimoniare loro che una possibilità di riscatto esiste sempre, anche in mezzo alla peggiore delle tempeste. Che l'abbraccio del bene è sempre possibile perché noi siamo fatti per il bene e il bene può giungere in ogni momento, inaspettato come sempre, reale come sempre.
Lo dico innanzitutto per Riccardo Bianchi.
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